il 16 marzo 1978 era un giovedì che a Verona cadeva in mezzo alla settimana della Fiera dell'Agricoltura.
All'epoca, la manifestazione era ancora un evento di portata nazionale che attirava decine di migliaia di persone negli spazi espositivi pieni di macchinari e di bestiame.
Come tutti gli anni, in quella settimana, la mia famiglia era arruolata a servire nella trattoria di mia nonna Ada e di mio zio Omero, fratello più giovane del mio papà.
Il locale, che durante l'anno era per di più un bar popolato da decine di giocatori di carte e di bocce, si trovava proprio a fianco del quartiere fieristico. Nel periodo delle esposizioni si trasformava così in una alternativa, meno costosa e più genuina, alle offerte precotte e riscaldate che si trovavano all'interno della Fiera.
Veniva preso d'assalto, già a partire dalle 11, da una folla di personaggi ruspanti e caciaroni che, col passar degli anni, si ripresentavano puntualmente, trasformando una faticosa visita ai padiglioni in una più rilassante mangiata e bevuta fuori dagli stand.
Ognuno di noi aveva un ruolo ben definito. Il mio papà, ovviamente, in cucina, capo cuoco. La mia mamma di supporto alla preparazione dei piatti, io in sala, improvvisato cameriere. Poi tutto il resto della famiglia, dalla nonna e mio zio Franco al banco, la zia Luigina e lo zio Omero con mia cugina Gabriella in sala o nella saletta più piccolina dove c'era un televisore in bianco e nero.
Quel giorno di sicuro avevo fatto una "berna" giustificata (in italiano, marinato la scuola) perché, trasportato assieme agli altri dall'affanno dei preparativi e dalla frenesia dell'assalto degli avventori, non ero per nulla a conoscenza di quanto, in mattinata, era successo a Roma.
Verso le 13, un signore ben vestito, loden verde su giacca e cravatta, entrò nel bar in evidente stato di agitazione ed iniziò a chiedere con insistenza sempre crescente, di poter vedere il telegiornale.
In quel turbine di gente presa dalla foga di mangiare e bere, era l'unico interessato ad una notizia, ancora sconosciuta, ma che capii potesse essere importante.
Provai così a mediare con zia Luigina (senza farmi vedere dall'esagitato) ma non fui, evidentemente, abbastanza convincente. Il fiume di persone che ancora dovevano mangiare era tale da non giustificare alcuna distrazione o interruzione del servizio.
Mi vergognai un po' a negare definitivamente a quel signore, sempre più agitato, la possibilità di accendere la tv.
La storia finì poi male, quando un cliente abituale del nostro bar, normalmente pacifico e posato, disturbato oltre misura dall'insistenza del malcapitato che non aveva ancor demorso, interruppe il sorseggio dell'abituale caffè e della grappa Fior di Vite, scaraventando malamente il poveretto fuori dal locale.
Ho negli occhi la scena del tizio che si allontana caracollando, imprecando contro la nostra ignoranza e accompagnato dalle minacce del cliente tutto fiero di aver riportato un po' di ordine nel locale.
La giornata passò poi velocemente, dopo l'ondata degli affamati, bisognava rassettare, per accogliere i giocatori assetati e ripulire la cucina preparandola all'assalto del giorno dopo.
Solo a sera, una volta a casa, capii cos'era successo seguendo finalmente il servizio di Paolo Frajese sul tg1.
Ricordo la sensazione del salto di qualità rispetto alla ormai quasi quotidiana consuetudine di omicidi e ferimenti ad opera dei terroristi e provo ancora un brivido pensando all'ottusa e poi violenta contrapposizione nei confronti delle preoccupazioni di quel povero signore.
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