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sabato 1 gennaio 2022

Otto mesi dopo: lettera ad un amore perduto.


Mio dolcissimo amore,

lascia che mi rivolga ancora a te anche se, da qualche mese, otto per l'esattezza, non sei più al nostro fianco.

So bene che avevi tutto il diritto di lasciare la nostra casa dopo quasi 15 anni.

So che eri stanca ed affaticata: si leggeva nei tuoi occhi, si capiva dai tuoi movimenti così lontani dalla luce e dalle energie dei tempi migliori.

So che mi dirai di aver dedicato tutta te stessa con slancio e senza risparmio alla nostra quotidianità e che, più di questo, non potevi davvero fare.

So, anche, che il tuo animo buono e umile non pretenderà scuse né spiegazioni per quelle che sono state le difficoltà che, anche a causa mia, hai dovuto superare e so che, solo e soltanto, serberai in cuor tuo il ricordo dei momenti belli e spensierati. 

Voglio però che tu sappia che il tuo addio mi ha lasciato un graffio che porterò per sempre dentro.

Voglio che tu sappia che sei stata, per me, per noi, la gioiosa presenza in un vuoto  che non abbiamo voluto colmare altrimenti.
Sei stata la mia “bambina”: felice, esuberante, mai capricciosa. Semmai, a volte, testarda.
Come quando, fin da subito, mi hai fatto capire di non gradire la tua prima “cameretta” ed hai affermato la tua personalità, disponibile ed obbediente, ma ferma e convinta dei suoi diritti.

Voglio che tu sappia che penso spesso a tutti i giochi che abbiamo scoperto assieme,
Come quando, con i tuoi “fratelli”, allora piccolini, inventavamo un gioco di nascondino e non c’era modo di ingannare il tuo fiuto così infallibile.
O quando, mille volte, ti ho costretta a fare un’elegante giravolta e tu ti accontentavi, riconoscente, di un piccolo pezzo di pane.

Voglio che tu sappia che sei stata, a volte, un riferimento esperto, esempio di guida e resistenza.
Come quando, perduti nei boschi dell’Isola d’Elba, hai condotto me e tuo “fratello” fuori da un labirinto che non riuscivamo diversamente a superare.
O quando, nelle gite con la “mamma” colmavi con le tue continue rincorse gli spazi che si creavano tra lei e me e ti fermavi, preoccupata, ad aspettarci ad ogni curva.

Sei stata paziente e comprensiva nell’accogliermi festante dopo lunghe assenze o nell’accontentarmi, obbediente, in qualcuno dei tanti giochi che ti ho imposto, a volte capricciosi e contestati dagli altri, come la famosa esplorazione dei bordi della tavola. 

Di ogni tavola.

Sei stata, sempre, il significato stesso di ritrovare casa, quando riconoscevi ogni volta, fosse Monaco, Milano, Peschiera e persino Mestre, il nido dove noi stavamo bene e tu con noi.

Sei stata, pensandoci ora, l’essenza stessa di questo lungo tempo trascorso dal momento in cui sei entrata nella nostra vita. Hai accompagnato silenziosa e fedele lo scorrere delle giornate, diventando, giorno dopo giorno, una parte di me. Quella con la quale potevo esprimermi  indifferentemente con un fortissimo abbraccio od un leggero calcio, consapevole che erano entrambi dati ed accolti come un gesto d’amore.

Voglio infine che tu sappia che sei stata molto più di tutto questo.
E sei stata molto più per tutti noi, presi assieme, di quello che sei stata per ciascuno di noi, come individuo. Un tratto immaginario che ha unito, modellandosi con semplicità naturale, le cinque personalità  di questa famiglia, un po’ complessa e, come si dice, non naturale. 

Mi è costato, ci è costato molto accettare di lasciarti andare. 

Ancor di più aiutarti a farlo, preparando controvoglia la tua partenza, un po’ improvvisa, ma non più rimandabile.

Penso spesso al momento dell’addio. Penso al fatto che non abbiamo voluto viverlo fino in fondo e, allora, mi piace pensare che, in realtà, hai cambiato idea e, alla fine, non sei partita, ma sei ancora in giro, da qualche parte, che ti godi un po’ di  libertà.

Buon viaggio Asia, ovunque tu sia.


P.S.: Asia ci ha lasciato il 1 aprile del 2021. So distinguere l'amore per un umano da quello per un animale. E so distinguere il dolore per la perdita di un umano da quello per un animale. È lei che abbraccio nella foto di sfondo di questo blog ed è lei che bacio nella foto profilo di Twitter. 

 

domenica 22 agosto 2021

Il colpo di spugna

Forse è normale, quando una vita finisce,  rimuoverne i brutti ricordi, cancellarne i fatti sgradevoli, dimenticare i torti ricevuti. 

Forse è anche normale, quando ti svegli da solo, accorgerti che non c’è niente da rimuovere, cancellare, dimenticare. 


E forse è normale, quando questo succede, provare lo smarrimento di chi vede smascherato ogni alibi. 


Io non credevo fosse così. 


Pensavo bastasse rimanere aggrappato al baratro della sua malattia, osservando con freddo distacco il suo lento, inesorabile rotolamento, per accumulare emozioni utili a non soffrire in questo momento.


Emozioni legate a brutti ricordi, come le foto di un volto cambiato dal tempo e sfigurato dal morbo, che offendevano la sua bellezza naturale da diva. 


O quelle connesse a fatti sgradevoli , come quando mi sentivo chiamare col nome di suo marito, il mio papà.


Dai vecio, andémo a casa che i buteleti i ne speta” mi diceva ogni dieci minuti in piedi davanti alla porta in quei lunghissimi, insopportabili giorni in cui era il mio turno accudirla e ancora non capivo che era malata. 


Quel “vecio”, era il soprannome del mio papà che, peraltro, non l’ho mai sentito chiamarla “Liliana”, ma solo, anche lui, “vecia” o, più spesso, “Bepa”. Sentirla chiamarmi così era una cosa che mi faceva bollire il sangue. 


Credevo che bastassero emozioni recenti di torti subiti, come quando il suo scivolare nell’incoscienza ha spento anche quell’ultimo barlume di presenza che le permetteva di darmi un bacio a richiesta. 

O di rispondere con un perentorio

  “E parché!!!” 

al mio irrispettoso ed impertinente 

“Mama, ma ridotta così elo mia mejo morir?”


Pensavo, insomma, che tutto questo sarebbe bastato per guardare oggi, con sollievo e senza tremori, al momento del distacco. 


E invece sbagliavo. 


La fine di tutto è il colpo di spugna che elimina le striature più amare. 


E, quando ti svegli da solo, le nere visioni accumulate là dentro il burrone, sbiadiscono d’un tratto, travolte e ricoperte dalla luce dei ricordi più belli. 


Così, di colpo, il dolore è più forte di ogni corazza.

Così, di colpo, capisci che la sua impronta di luce una volta così luminosa e che pensavi offuscata, era solo mutata nella sua forza vitale.


Quella forza che le ha fatto vivere quest’ultimo scampolo di sofferta esistenza senza chiedere niente, ma, come sempre, donando tutto ciò che poteva. 

Anche solo il piacere che offriva nel vederla gustare una caramella o cibarsi da sola senza pretendere l’accanimento di aiuti così comuni in queste tragedie.

O, infine, il gesto di inconsapevole, ma spontaneo amore, che le ha fatto esalare l’ultimo respiro solo dopo aver ricevuto, senza alcuna ragione pressante, la visita di noi tre, suoi figli.


Grazie Mamma, perché  anche questo dolore così penetrante da bucare ogni corazza, è , in fondo, il dono più “giusto” che la linea di una lunga vita possa offrire ad un figlio. 

Ora puoi passeggiare, nel mondo dei nostri ricordi assieme a lui che, sempre lì, nei nostri ricordi ti aspettava ogni giorno da ormai molto tempo.




domenica 31 maggio 2020

Piccola Storia Ignobile

Per chi non ha voglia di leggere, si tratta di una Piccola Storia su un ennesimo gesto onesto commesso da un ragazzo immigrato.
Da parte sua, non c'è proprio niente di ignobile.
In questo, con disprezzo di chi ne fa un programma, purtroppo vengo prima io italiano.

20 euro.
Non c'entrano molto con questa storia, ma questa è, più o meno, la tariffa per un taglio di capelli.
Sfilo la banconota dal mio portafoglio che contiene solo 60 euro in contanti, ma scoppia di tessere, carte, documenti plastificati e porgo i 20 euro a Luca che, con un ciuffo trascurato dal lockdown e dalla clausura pre-esame li intasca e ci fa sopra una battuta da adolescente che riceve la  paghetta.

Ripongo poi il portafoglio nella tasca del mio giubbino da moto e mi ri-immergo nel turbine dello smart working.

Verso sera, per la verità un po' stufo di contare savings, tagli e fare piani che chissà quante volte cambieranno, decido di prendere un po' d'aria e puntare con la moto dalle parti del centro.
Penso ai bar dalle parti di San Zeno, dove Instagram mi mostra un Luca felice e sorridente sorseggiare uno spritz di festeggiamento per la  felice conclusione di mesi di studio e delle due settimane di esami.

E' da molto che non uso la mia Heidi, una vecchia Sporster Custom 883 a carburatore.
Sarà anche per questo che, a metà strada circa, finisco la benzina e devo, come facevo con la mia Vespa anni '70, piegarmi a ruotare la valvola del serbatoio verso la riserva.

Arrivato in piazza San Zeno, giro a piedi un po' distratto ed incuriosito dalla rinascita di vita della zona. Mascherata, ma esuberante, una folla di bambini ronza con le bici nella zona sgombra di auto.

Altri bambini, più cresciuti, sorseggiano aperitivi seduti ai tavolini dei bar, distanziati di quel poco da far sembrare che niente sia accaduto.
Capiremo molto in fretta quanto, e se, pagheremo questa voglia di dimenticare che il virus è ancora qui ed uccide non soltanto le nostre radici, ma minaccia, soprattutto, il nostro futuro.

Tra gli ospiti dei bar non trovo Luca.
Non ho voglia di bere qualcosa da solo e mi rimetto in sella, appuntandomi nella mente il bisogno di fare benzina al primo distributore. Conosco bene l'autonomia di Heidi e so che non consente di percorrere grandi distanze con il mezzo litro della riserva.
L'appunto  dura però solo il tempo di ingranare la prima: arrivo infatti a casa senza soste (né rifornimenti) e senza aver messo mano al portafoglio,  né per l'aperitivo, né per il carburante.

È ora di cena e in piano c'è una pizza da asporto anche con Luca e Maria.

Quando esco per ritirare la pizza, faccio per estrarre il portafoglio dalla tasca del giubbino.

Non lo trovo e capisco subito di averlo perso.
Probabilmente è scivolato fuori durante la mia corsa in moto (ché col distanziamento sociale nessuno mi ha mai sfiorato) ma va a sapere in che punto del tragitto.
Mi rendo conto quindi della gravità del fatto, e, come sempre mi accade nei momenti di difficoltà, prevale in me un'assoluta lucidità.
Nessuna siracca, né imprecazione.
Solo una chirurgica e distaccata dissezione di ogni anfratto della casa in cui ho la speranza che il taccuino possa essere caduto prima di uscire.

Elisabetta, abituata alle mie roboanti siracche in situazioni ben meno gravi, quasi si infastidisce per la glaciale indifferenza e lucida determinazione nel seguire una sorta di check list da astronauta che guida le mie mosse in quei momenti.

Avuta la certezza che il portafoglio non è in casa, inizio la manovra di blocco delle carte bancomat e di credito.

Tutto è molto semplice ed efficiente, ma essendo la prima volta che perdo una cosa così importante, il vero giramento di palle (sempre senza siracche) parte al pensiero di denunciare e rifare tutto il resto dei documenti, patente, tessera sanitaria, carta di identità, persino la tessera della Metro di un'amica che ho ancora io.

Cerco di mitigare l'ansia da burocrazia coltivando, con un briciolo di ottimismo, la speranza che qualcuno ritrovi il mio taccuino assieme al modo di farmelo riavere.

Ed è proprio in quel momento che squilla il telefono di casa.

In questi mesi di lockdown/smart working il telefono fisso squilla spesso e quasi sempre non rispondo perché il numero sconosciuto ha tutta l'aria di essere quello di uno dei mille call center che ti propongono cambi di operatore o guanciali per la cervicale.

Ma, questa volta, il numero sembra quello di un cellulare italiano, 347....

Rispondo calmo ed il mio interlocutore,  con un fortissimo accento veronese ed una altrettanto forte inclinazione dialettale mi saluta e si presenta come lo ... spazzacamino.

Ricollego immediatamente la voce a quella dell'artigiano che, poco più di un anno fa, è venuto con il figlio a pulire, con le spazzole dell'amico di Mary Poppins, le canne fumarie del mio camino.
Certo, mi ricordo di lui ed è un piacere sentirlo, ma il camino non è certo il mio pensiero in questo momento.

Con la voce un pò agitata mi racconta di aver ricevuto una telefonata da un certo Jensen, del Ghana, il quale ha trovato un portafoglio contenente un foglietto con il suo numero ed i documenti di un certo Diego Donisi.
E lui, lo spazzacamino, che non ricordava nulla del mio nome, ha cercato su internet, trovato il mio numero di casa ed ora mi sta chiamando per darmi il numero di Jensen.

Jensen che sta aspettando la mia chiamata.

Lo chiamo subito.

Mi risponde la voce di un ragazzo, in un italiano incerto e timido.
Chiedo se ha lui il mio portafoglio.
Mi risponde di si e mi spiega dove trovarlo.
Mi dà il nome di un albergo, storpiandolo in modo che fatico a decifrarlo.
Mi parla di un campo in Zai, una zona industriale alla periferia sud di Verona.

Controllo su internet ed un albergo con quel nome esiste, ma è dato "chiuso per sempre".
Quella dicitura, assieme al riferimento ad un campo,  mi insospettisce ed inizio a pensare ad un trabocchetto.

La sua voce  però, per quanto incerta, non mi lascia alcuna paura, anzi, mi trasmette solo un senso di fiducia che ricambio senza più pensare a situazioni pericolose.

Inforco Heidi e mi dirigo verso questo fantomatico campo.

Prima di partire però, chiedo ad Elisabetta di prestarmi 50 euro, sicuro di volerli dare in cambio del mio portafoglio molto probabilmente ritrovato vuoto dei pochi contanti.

Durante il breve tragitto i miei pensieri sull'albergo chiuso ed il campo in cui mi aspetta Jensen si incrociano con una pattuglia di polizia, ferma ai lati dello stradone.
Per un attimo penso di chiedere loro se sto facendo la cosa giusta, ma vinco subito quell'inconscia diffidenza con la forza della fiducia in quella voce così giovane ed incerta.

Arrivo in pochi minuti al punto concordato.

Parcheggio Heidi ed inizio ad osservare dove sono capitato.
Si tratta, in effetti, di un albergo. Di campi, però, non c'è nemmeno l'ombra.
Certo non è un hotel a 5 stelle, ma l'edificio è nuovo e fresco di tinteggiatura.
Intuisco che si tratta di un albergo requisito per dare ospitalità a degli immigrati.

Dalle finestre delle stanze si intravede un contesto vitale, ma ordinato. Sembra quasi profumare.

Affacciata alla finestra del primo piano, una bella ragazza conversa amabilmente in una lingua che non decifro con un ragazzo che staziona in piedi a pochi metri da me.

Provo a chiedere se è lui Jensen, ma, più scocciato dalla mia interruzione del suo corteggiamento che interessato a rispondermi, mi fa segno che non capisce.

Decido di fare allora di nuovo il numero di Jensen e di chiamarlo al cellulare.
Mi risponde subito con la sua voce da ragazzo ed un incerto  "arrivo!".

Capisco che è lui per la mano che tiene in tasca quando esce dal portone dell'albergo indossando una mascherina chiara.

Una volta vicino a me, infatti, estrae la mano e mi porge il portafoglio.

Non lo afferrò subito anche perché il mio sguardo è attirato ed abbagliato dal nero dei suo occhi che mi osservano, come esitanti, dal bordo della mascherina.
Sono occhi che non sorridono e mi proiettano per un attimo in una storia di sofferenze, ma la loro luce è fiera e mi conferma, anzi amplifica, quel senso di fiducia che la sua voce mi ha trasmesso fin dal primo momento.

Esito ancora a prendere il portafoglio e ad offrirgli la banconota da 50 euro che ora tengo in mano.

Ho paura di offenderlo, ma dò per certo che il portafoglio sia finito nelle sue mani già svuotato dei 40 euro.

Finalmente mi decido, prendo il portafoglio e gli offro la banconota.
Lui, all'inizio, mi fa segno di non volerla e mi invita, con un gesto,  a controllare che ci sia tutto.
È così che apro la cerniera del taccuino e scopro che ci sono ancora i 40 euro.

Devo aver trasmesso, al di sopra della mascherina, tutta la mia gioia per quella scoperta.

Non certo per la cifra ritrovata, ma per l'onestà  che, in tutta questa storia, Jensen ha dimostrato.

E' stato un attimo, i suoi occhi neri straordinariamente luminosi hanno corrisposto alla gioia del mio sguardo e si sono accesi in un sorriso che non dimenticherò mai.
Il gesto di un abbraccio reciproco è partito spontaneo da entrambi, ma si è subito smorzato perché la mascherina ci ha ricordato che il virus impedisce ancora di essere fino in fondo umani.
Allora gli ho dato, assieme a tutte le banconote, un amichevole pugnetto sulla spalla e lui mi ha istintivamente teso la mano che io ho preso e stretto tra le mie.

Poi ci siamo salutati ed io ho ripreso la via di casa, senza soldi per la benzina, con le carte ormai bloccate, ma felice al pensiero di tornare, fosse anche a piedi, con tutti i miei documenti e, soprattutto, con la ricchezza che il gesto e lo sguardo di Jensen mi hanno regalato.

Mi rimane da spiegare il perché dell'attributo "ignobile"  di questa (non tanto) Piccola Storia.
Non è certo per ricordare il titolo di una canzone del mio amato Francesco (a tutt'altro dedicata).

Ignobile è il gusto che mi ha lasciato in bocca, poi, più tardi, il fatto di aver liquidato la luce di quegli occhi neri con il solo e banale gesto di una ricompensa.
Vorrei aver fatto e poter fare molto di più. Vorrei avere un'azienda ed offrirgli un lavoro. Vorrei, vorrei...
Ma con i vorrei sono lastricate le strade delle ipocrite buone intenzioni.
Che di solito sono soltanto, appunto, ignobili.

Magari, questo racconto, potrà colpire qualcuno meno ignobile di me e con più possibilità di aiutare questo ragazzo non solo con gli spiccioli di un'elemosina.

Se così fosse, io, il numero di Jensen, non l'ho cancellato.




















sabato 25 aprile 2020

25 aprile



Il 25 aprile del 1945, il mio papà (quello più alto nella foto) non aveva ancora 15 anni.
Il suo corpo di adolescente, già fatto uomo, appariva ancor più slanciato dalle forme che la fame gli aveva modellato addosso.

Quella sera, il rosso di un tramonto ne accompagnava il rientro solitario verso la sua casa di Tombetta, un quartiere popolare a sud di Verona.

Indossava una camicia ed un paio di calzoni lunghi appartenuti al padre.

Costretto da sempre a vestire braghe corte, quelle di quel giorno, lunghe,  da uomo, sdrucite e rattoppate, erano per lui il segno di una liberazione da una adolescenza funestata da guerra e povertà.
Erano come il passaporto di ingresso nell'età adulta.

Rincasava camminando lentamente, frastornato dagli eventi di quella iornata particolare.

Aveva osservato, stupito, le lunghe colonne di camion militari degli Alleati sfilare scenograficamente nella via di accesso alla città, tra le ali di una folla scalcagnata, ma festosa e sorridente.
Aveva udito,  disorientato, le grida felici e liberatorie della stessa gente resa guardinga e silenziosa da anni di guerra ed occupazione. 
Quella vista e quei rumori, così lontani dalle violenze dei combattimenti e dal sibilo delle bombe, disorientavano i suoi sentimenti in un modo nuovo ed inaspettato.

Le armi, come per incanto apparse nelle mani di vicini di casa o brandite orgogliosamente da  sconosciuti partigiani finalmente a viso aperto, sventolavano nell'aria assieme ai fazzoletti delle donne dalla cenere sbiancati.
Solo il suo sguardo era guidato da quei movimenti, non i suoi gesti.

Il bianco dei fazzoletti, bandiere finalmente liberate dal simbolo di una monarchia vigliacca e connivente, contrastava col il nero della sua camicia, su cui mio padre abbassò lo sguardo avvicinandosi a quella casa dove era rimasto, rintanato, il suo papà.

Lui, il mio nonno, non poteva uscire a festeggiare.
Era sempre stato dall'altra parte.
Dalla marcia su Roma, alle guerre d'Africa, dalle colonie e fino  alla milizia ferroviaria, lui aveva fatto la scelta nera, come la camicia che in quel momento stava annebbiando lo sguardo del mio papà.

Che camminava così, immerso in quel nero.

Come un automa, un passo dopo l'altro, era indeciso se essere felice per la fine di un incubo o disperato per il crollo violento di quei miti paterni.
Non sapeva da che parte stare, lui che aveva così amorevolmente assolto un padre a cui era legato da  un travolgente sentimento di ammirazione.

Era ormai vicino a casa.
Sempre assorto in pensieri dilanianti.
Ma non più solo.

Dietro lui, uno di quei vicini,  uno di quei partigiani, si era staccato dalla folla, imbracciando, ormai senza timore, un'arma per troppo tempo nascosta.
Lo stava seguendo con lo sguardo del cacciatore che, finalmente, ha trovato la sua preda.
Stava puntando il fucile e mirando alle spalle di quel ragazzo che, a causa del nero della camicia e della somiglianza nei movimenti, aveva scambiato per il mio nonno.
Lo aveva nel mirino e lo stava trasformando, in quella irrefrenabile euforia da liberazione, in un nemico da giustiziare proprio lì davanti a casa.

Il suo dito accarezzò il grilletto.

Fece un respiro profondo  e...

Sono qui, e posso scrivere queste righe, perché una donna, sì, UNA DONNA, accortasi della cosa e capito l'orrore (e l'errore) che si stava commettendo, si parò davanti al giustiziere, gridando con quanta voce aveva in corpo: "Fermo! Fermo!  Non sparare! Quello non è Adelino, il fascista,  ma suo figlio, Damiano! L'è solo un butèl! (è solo un ragazzo!)".

L'uomo, forse scosso da quelle grida, si risvegliò dal delirio della violenza che stava compiendo ed abbassò l'arma, voltò le spalle e se ne andò,

A me piace però pensare che, colpito dal coraggio di quella Donna, a cui anch'io in un certo senso devo la vita,  capì che la sua vera forza sarebbe stata quella di perdonare e rinunciò per sempre a quel proposito di vendetta.
Mi piace pensarlo anche perché non fece, mai, quei pochi passi che lo separavano dalla camera dove la ragione della sua rabbia stava nascosta.

Da quel giorno il mio nonno visse un po' dimesso, come a vergognarsi del suo passato, e morì, per me vecchio e malato, nel 1966.  
Di lui ho un ricordo buio e severo. Stava seduto silenziosamente in un angolo del bar/trattoria della mia nonna.

Chissà quante volte e come, in tutto quel tempo che gli fu regalato dalla fine della guerra, il suo sguardo avrà incrociato quello del mancato giustiziere e chissà se ed in che modo avrà ringraziato quella Donna che lo salvò dal dolore più grande.

Mio padre, che non ha mai voluto raccontarmi di persona questa storia, non mi ha nemmeno mai narrato mezza delle pur tante gesta fasciste del suo papà.
Se ne vergognava pure lui e, senza averle dimenticate né rimosse (ché, ogni tanto, si lasciava scappare il suo giudizio negativo per quelle idee di violenza, sopraffazione e razzismo) le ha tenute sempre per sé con quel riserbo un po' burbero e tenebroso che era il suo solo modo di essere dolce.

Mi ha trasmesso però, nel breve squarcio in cui ho goduto della sua esistenza, la forza dell'amore che perdona, senza dimenticarlo, ogni errore  (quanti me ne ha perdonati con immensa generosità in quei 22 anni che abbiamo vissuto assieme...).

Coraggio, perdono, ricordo.

Tre sentimenti difficili da vivere. Soprattutto non è per me il perdono per i protagonisti ed i gesti conseguenti a quelle idee né, tanto meno, per chi, oggi, non le rinnega apertamente.
Sono sentimenti che accendono la luce necessaria a vincere le tenebre di questo periodo così difficile, non solo per la pandemia, ma, in modo molto più pericoloso, per tutti i fascismi che vogliono vigliaccamente e imperdonabilmente, cancellare questo 25 aprile ed il suo unico significato di festa di liberazione dal fascismo.


P.S.: il 25 aprile del 1945, il mio nonno materno, di cui ho un ricordo loquace e luminoso, andava a recuperare, nascosta da una pietra e protetta in qualche modo, la sua tessera del Partito Comunista. L'aveva occultata perché lui, con 4 figli, non se l'era sentita di lasciarli in preda alla fame ritirandosi a combattere sulle montagne. Per lui, figlio di un macchinista ferroviere anarchico (non so che viso avesse...) una mancanza di coraggio che, forse, non si è mai perdonato. Ma questa è un'altra storia...









sabato 5 gennaio 2019

La nonna di Pedro

L' anima della nonna di Pedro si aggira senza fretta ed un po' curva tra le stanze del suo appartamento al 5 piano di Calçada de Arroios, Lisbona.
Le mille mani di tempera bianca spalmate di recente, un po' alla bene e meglio quasi ovunque, non sono riuscite a cancellare la sua presenza discreta ed anche un po' nobile.
Nel lungo corridoio che si proietta sul rosso del tramonto verso la statua del Cristo Rei, le assi di parquet di pino lucidate di fresco, ma altrettanto di fresco inzaccherate dai resti della bianca tinteggiatura, sembrano scricchiolare sotto i passi preoccupati di chi vede la sua proprietà, forse frutto di anni di sacrifici, invasa da noi, ospiti stranieri proprietari solo  di una app.




Pedro è il ragazzo che ci accoglie. Ha trasformato l'eredità della nonna in una redditizia attività di locazione turistica pubblicizzata su Airbnb.  La sistemazione, al quinto e ultimo piano (senza ascensore) di un palazzo in Calçade de Arroios ci accoglie (senza riscaldamento, ma non per questo freddo nell'aspetto) con quell'aria un po' nostalgica ed affettuosa tipica, appunto, di una nonna.

Il senso di una presenza nobile ed un po' stantia, pervade non solo le stanze di questo grande ed affaticato appartamento, ma un po' tutta questa città.

La intuisci preziosa e regale, ma al tempo stesso aggrappata e decadente.

Il contrasto tra la sua luce accecante, riflessa in ogni angolo dal blu dell'Atlantico immenso di fronte  e le croste dei palazzi dalle mille finestre chiuse, intenerisce l'animo predisponendo ad un senso di calma ed alla voglia di accettare che il tempo da vivere è tutto, e solo, ciò che importa.

Così, un po' "scialli" e senza fretta, abbiamo vissuto questi giorni in città, trascinando i nostri passi qua e là, senza un vero e proprio programma, senza l'assillo di una meta.

Turisti un po' cialtroni, un po' saggi, abbiamo preferito lasciarci guidare dalla Città stessa, senza confinarla, più di tanto, dentro ai cliché delle guide e dei consigli di chi sa...

Ed è così che Lisbona lascia scoprire, senza l'affanno di cercarli, i tesori che si sono rivelati per noi più preziosi.

La luce, ad esempio. L'ho già detto. Staglia nette le ombre sulle case colorate. Riscalda il viso che all'ombra patisce il vento dell'oceano. Accende di colori vivi gli azueljos, le piastrelle che ricoprono le facciate delle case più vecchie. Quando vince sulla nebbia che spesso sale dall'oceano, ricoprendo la città di un fumo denso che fa a gara con quello dei fornelli per le caldarroste, offre della città una visione cosi netta che di colpo ti sembra di aver recuperato una vista a dieci decimi.

I marciapiedi, che qui chiamano  calçada. Trasudano la fatica di assemblare i milioni di cubetti di porfido, molto spesso bicolore e disposto a formare disegni geometrici. Ti chiedi, ogni volta che il passo ondeggia sul sobbalzo del mosaico, se sia valsa la pena di spender tanta energjs per la posa di queste pietre invece di una bella gettata di rude asfalto come avviene nei marciapiedi di tutto il resto del mondo.
La risposta arriva presto quando jl gioco di luce illumina le onde dei disegni regalandoti l'illusione di trovarti dentro un disegno di Escher.

I tram. Così  normali che a Milano (dove sono altrettanto se non più belli) neanche li noteresti, ma talmente affaticati dalle salite che, alla fine ti impietosiscono. E allora ti senti spinti a fotografarli, come se questo gesto di attenzione potesse dare anche a loro la spinta giusta.

La cucina.  Ci stupisce  il modo in cui si costruisce su due o tre ingredienti una cucina da ricordare. A partire dal merluzzo, il bacalhau, servito in tanti modi e tutti buoni, ma pur sempre baccalà.
O i dolci che, anche lì, si gira e rigira attorno alle pastes de nata o poco più. Vengono venduti (e da noi apprezzati ) come specialità uniche al mondo.
Persino sullo scatolame, alici, sardine, tonno e sgombro, hanno saputo inventare brand e negozi che, alla fine, riescono ad attirare un sacco di gente contenta, come noi, di portarsi a casa un Rio Mare vestito a festa.

Poi,  per chi, come noi, ha dedicato ai musei, monumenti e attrazioni ufficiali, un tributo limitato (il Museu Coleção Berardo, arte moderna, l'inavvicinabile il Castello di Sao Jeorge,  l'Oceanario, Parque de Nacões) Lisbona è bella soprattutto per il suo equilibrio instabile tra una pulizia ed organizzazione da moderna città nord europea e l'aggrovigliato disordine dei suoi saliscendi affiancati da case spesso fatiscenti e con l'aria di essere lì, accatastate, in temporanea attesa di un posto migliore.

Bordeggiando su questo equilibrio, abbiamo così deciso di bilanciare il doveroso omaggio alle mete ufficiali (Belém, o il Convento del Carmo, una chiesa scoperchiata dal terribile terremoto del 1795 e rimasta così da allora) con il girovagare, più o meno a caso, con l'intento di inciampare in quakche opera di street art.

Siamo così finiti nella zona cosiddetta LX Factory, proprio sotto l'altissimo ponte 25 Aprile. Il vecchio insediamento industriale, riadattato per ospitare locali, negozi, esposizioni, offre un campionario di graffiti variopinto ed interessante, con alcuni disegni di artisti anche famosi come il napoletano Millo.

Raggihngere qualsiasi punto della città è davvero facile. Le linee della metro, disegnano un reticolo di fermate regolarmente distribuite. Il costo è davvero limitato (6.40 euro per 24h dal primo gennaio). Tra l'altro, con la carta VivaViagem ed il biglietto giornaliero puoi salire anche sui famosi tram (in particolare il 28 per andare al Castello ed il 15 per Belém) e sulle funicolari, sulle quali la sola andata costerebbe 3.60 euro....

Affittare un'auto, come abbiamo fatto noi per qualche giorno, è, in fin dei conti utile solo  schivare le visite a chiese e cattedrali (alle quali sono notoriamente allergico) con la scusa di andare fuori porta per ammortizzarne almeno in parte la spesa del noleggio.
Volendo però, persino a Cabo de Roca, il punto più occidentale del continente, puoi arrivare con un autobus.

Infine, due parole sui ristoranti.

Come ho già detto, non siamo in presenza di una cucina dalle mille ricette. Più o meno la lista è quella, con in bacalhau, il choco (seppia) o il frango (pollo) sempre in prima linea.
Assenti del tutto i primi come noi li intendiamo, se vuoi partite "all'italiana" devi puntare sulle zuppe.
Detto questo, però, mangiare qui è sempre stata una esperienza entusiasmante proprio per la semplicità.
Accostamenti poco ricercati, ma decisi, molto spesso sottolineati dal coriandolo, hanno accompagnato le nostre cene fuori.
Che poi, ci siamo affezionati a due posti in particolare, qui vicino a casa nostra. Tutti e due poco turistici e molto portoghesi. Due locali con caratteristiche opposte. O Foguete, il primo. Ci siamo capitati per caso la prima sera che il posto consigliatoci da Pedro aveva la coda fino in strada.
Un posto molto piccolo, popolato di clienti abituali o di studenti squattrinati.
La prima volta ci hanno accomodato vicino ad una coppia. Pochi attimi e lei si dichiara italiana ed inizia a darci consigli con gentilezza.
Il cameriere, da solo, che ha tutta l'aria di essere anche il proprietario, sembra invece avere  una vespa nei calzoni da tanto si agita, con fare un po' scortese, soprattutto con gli avventori del tavolo dietro al nostro. Manda a quel paese, per la verità sotto voce, uno di loro alle prese, con tanto di martelletto bianco, con le zampe di una gigantesca granseola.
Mangiamo però benissimo e per questo decidiamo di tornare.

Esperienza più da emozione invece da Mãe, che in portoghese vuol dire madre.
Un cameriere dolce e pieno di attenzioni ed una brigata di cucina, silenziosa ed organizzata, ma in bella vista, ci offrono le coccole di piatti tradizionali delle mamme, solo leggermente rivisitati.
Alle pareti, in piccole cornici, sono appese immagini in bianco e nero delle madri di quei clienti che hanno accettato di spedire una foto della mamma. L'idea di far girare tutto il locale attorno alla figura della mamma mi conquista al punto che spedisco anch'io, seduta stante, una foto della mia nella speranza di vederla raffigurata assieme alle altre.

Ultima segnalazione, invece, è per un ristorante fuori porta, a Sesimbra, un paesino sul mare a metà strada tra la contrada di pescatori e l'obbrobrio di mostri edilizi anni 70.
Al ristorante Casa Mateus abbiamo mangiato dell'ottimo pesce cotto con patate, pomodoro e coriandolo dentro la classica e spessa pentola di alluminio finendo il pranzo con un dolce delizioso  (una crema brulee con granella di nocciola e sale marino per me, pera ripiena di cioccolato con gelato di vaniglia e cannella per Elisabetta).

giovedì 25 ottobre 2018

Cane e gatto

Nell'immaginario comune, "cane e gatto" è sinonimo di discordia, disprezzo reciproco, in un certo senso anche di prevaricazione della forza fisica sull'astuzia così come, per contrappasso, di sfacciata irriverenza dell'anarchico contro il fedele e sottomesso servitore.

Insomma una serie di letture prevalentemente negative.

In genere però, l'espressione si usa per situazioni in cui si sottintende una sorta di familiarità tra le due parti. 
Si dice che sono cane e gatto, ad esempio, un fratello ed una sorella (quante volte me lo sono sentito dire da bambino...) oppure un marito ed una moglie, oppure due colleghi che condividono gli spazi lavorativi litigando per ogni cosa, ma, in fondo in fondo si stimano e, in alcuni casi, si vogliono anche bene.

E' difficile sentirlo riferito a persone che sono distanti, non solo nel carattere, ma anche nella posizione sociale, né tanto meno, nelle idee politiche.
In quel caso si usano termini meno bucolici, come nemico, avversario, oppositore.

"Cane e gatto" è quindi, in fin dei conti, un'espressione che richiama sì una tensione, ma in un contesto che possiamo provare a chiamare affettuoso.

Il perché di questo sproloquio iniziale è presto detto.

Non voglio parlare di fratelli e sorelle (e neanche di mariti e mogli).
Non voglio parlare nemmeno di politici (che in quel caso il solo pensiero del nemico è ispiratore di istinti rivoluzionari e violenti).

Voglio parlare di "cane e gatto" per davvero e raccontare di una storia piena di affetto.

Dunque, Asia, il nostro golden retriever (12 anni il 4 ottobre u.s.) è solita passare le sue giornate nel piccolo giardino di casa, lavorando duramente come cane da guardia (!).
La sua interpretazione di difesa del territorio e quindi il suo comportamento "lavorativo" consistono nel lasciar scorrere il tempo comodamente sdraiata in un paio di postazioni. 
Fin da cucciola sempre quelle. Tutte e due in posizioni defilate.
La prima, ben nascosta sotto il tavolo nel piccolo porticato davanti alla porta. 
La seconda ancora più occultata in un buco nel terreno che lei stessa ha scavato sotto la siepe di pitoforo.

Da entrambe le posizioni  si guarda bene dallo scomporsi se passa qualcuno, a meno che non si tratti di chi (fosse anche un ladro) la chiama per farle le coccole.
Diciamo che la sua interpretazione della mission lavorativa (sto scherzando...) è un po', per così dire,  alla buona.

In due casi però il suo istinto si rivela per quel che dovrebbe essere: un cane che insegue ed abbaia.
Il primo caso non lo dico, perché non gliel'ho insegnato io e non è così politically correct, anche se farebbe molto piacere ai tanti razzisti che vanno di moda purtroppo in questi tempi.

Il secondo caso invece è più normale, anzi è proprio ... il caso del gatto.

Capita spesso, infatti che, sentendoci arrivare dal fondo del vialetto pedonale che conduce a casa nostra, invece di trovarla bellamente addormentata in una delle due "location" di cui sopra, la sentiamo correre verso il cancello, a volte pure abbaiando, preceduta dalla nuvola di peli di un gatto che, proprio come un cartone animato, scappa terrorizzato inseguito dal suo nemico numero uno.

A dire il vero, più di una volta abbiamo avuto la sensazione che fosse solo una messinscena per darci la soddisfazione e sentirsi rivolgere un apprezzamento per il lavoro ben fatto. 
D'altronde, l'addestramento quasi comico del "Ciàpa el gato!" che le urlo ogni tanto per vederla schizzare alla rincorsa di un gatto inesistente, a qualcosa servirà pure!

Resta il fatto però che, fino a pochi giorni fa, quelli che ho detto erano una serie di punti fermi: i nascondigli, sempre quelli, quella cosa che non mi piace dire ed il gatto che esce di corsa dal cancello  (quasi sempre un gatto nero con la coda mozzata da una battaglia tra gatti).

Bene, sono ormai due settimane però che due di queste certezze sono venute meno: Asia non si nasconde più nelle sue "tane" ed il gatto, quello nero a coda mozza, non scappa più dal nostro giardino.

Quello che succede invece è che Asia passa le sue giornate accovacciata davanti al cancello, senza più scomporsi nemmeno davanti alle coccole di chi passa.
Abituati a vederla stiracchiarsi uscendo assonnata dai suoi nascondigli o a scodinzolare a chiunque la sfiorasse, trovarla sempre immobile sulla soglia del cancello, un po' vigile, un po' abbattuta in un atteggiamento così insolito e di attesa, ci è sembrato davvero strano.






Quello che è successo (l'abbiamo scoperto parlando con un vicino) è che il gatto nero a coda mozza ha fatto la fine di tutti i ricci che attraversano la strada e lei è li che lo aspetta, inutilmente, probabilmente per giocarci fino al nostro ritorno e poterci proporre la sua recita da "cane e gatto".

Peccato che questo spettacolo sia sospeso, forse per sempre.

Ma il suo dolcissimo atteggiamento di attesa è la prova provata che, almeno per gli animali, il concetto di "cane e gatto" è più intriso di affetto che inimicizia.

lunedì 19 febbraio 2018

Il fiore che non appassisce

Chi è cresciuto nell'abitudine di amare, dedicarsi agli altri e rispettare le regole, non dimentica la bontà.

Non sto parlando di me, ovviamente. 
Su queste buone abitudini, nonostante i giusti insegnamenti, ho infiniti spazi di miglioramento.

Non parlo, tanto meno, di uno dei mille ipocriti paladini di tali valori che, in questo periodo, impestano le nostre giornate con squallide campagne elettorali.  

Parlo di un fiore che appassisce e che, nonostante questo, continua a riempire il mondo con il profumo della sua dolcezza. 

Questa fiore è la mia mamma ed oggi compie 85 anni.
Voglio farle gli auguri in questo modo, ricamando sulle sue abitudini.



La prima è l’abitudine ad amare.
La sua nasce da lontano.

Di sicuro la respira, piccola e bellissima primogenita, dai genitori, Bruno ed Elisa (sempre chiamata nonna Lisetta).
Uniti in modo assoluto e commovente, hanno superato assieme difficoltà piccole e grandi.

La mia mamma è la bambina col fiocco bianco in testa
Dalla distanza Pioltello-Saronno percorsa in bicicletta dal mio nonno per andare a trovare la sua giovane fidanzata, alle incredibili peripezie quando, ormai più che settantenne, andava a trovarla in casa di riposo su uno scalcagnato motorino che lui stesso, vero talento nella arti meccaniche, aveva messo assieme. 
Ogni giorno avviava il catorcio pedalando, come un giovane, tenendo stretto sul manubrio il sacchetto col budino preparato per la nonna, ormai avvolta dalle nebbie della stessa malattia che oggi asfissia la mia mamma.

Per non parlare delle sofferenze della guerra,  quando il nonno era costretto a scappare nei rifugi trasportando la nonna, semi-paralizzata, sul portapacchi di una bicicletta, lasciando i tre figli alle cure dei vicini.
O ai chilometri percorsi a piedi alla fine del lavoro alle Officine Ferroviarie, tutti i giorni, dal capolinea di Grezzana fino a Valciàpelo, un posto di mezza montagna, dove erano sfollati dopo la nascita del quarto figlio.

E’ lì che la mia mamma, bambina ormai cresciuta, si dedica ai fratelli più piccoli, sostituendosi sempre più spesso ad una madre malaticcia e, chissà,  forse travolta dal male oscuro di una  vita violentata da una guerra orribile e così diversa da quella sognata.

E’ lì che impara ad ignorare i morsi della fame rispettando la regola atroce di non oltrepassare la linea di confine tracciata idealmente sul tavolo condiviso con la famiglia della zia ed i cugini più fortunati, sfamati a pane bianco e salame e non a pane nero e patate.

Certo, Anna Frank ne ha viste purtroppo di peggio, ma quando la mamma mi raccontava questa scena, mi pareva di sentire l’odore di quelle ingiustizie e mi chiedevo come avesse potuto sopportare tutto questo senza ribellarsi mai.

In queste prime sofferenza stanno le radici del suo modo quasi austero, auto-limitato, di gioire.

E' in quell'insopportabile squilibrio di emozioni che sta tutta la sua inclinazione, quasi testarda, a sentirsi a posto solo quando ha dato tutto ciò che può dare,  con umiltà, senza sfoggiare e, soprattutto, con un rispetto ed un senso di giustizia più etico che religioso (né, tanto meno,  bacchettone).
Questo dare, senza apparire, è stata la sua vera e grande ribellione.

Potrei riempire pagine, e forse un giorno lo farò, con gli episodi della sua vita condita di amore, dedizione e senso etico.

Dalla devozione unica e totale al mio papà, al dolce rigore con cui metteva in riga le decine di ubriaconi bestemmiatori alla chiusura del bar che aveva gestito con coraggio per qualche anno.
Dall’esperienza pioneristica da genitore  volontario alle prese coi Decreti Delegati, al diploma di terza media recuperato, ormai più che sessantenne, con la passione e determinazione di quell'adolescente che non era stata.

E poi, le esperienze di volontariato che nemmeno conosco quante siano state.
Su questo, lei, con me da sempre niente parole e tutto sguardi,  diceva poco e faceva molto, lasciando il segno. 
Tra i bambini ed i ragazzi dei Grest estivi, ad esempio, era una dolce celebrità e questo era strano per noi figli. 
Bimbi un po' pestiferi, soprattutto mia sorella ed io, l’avevamo conosciuta molto meno sdolcinata e propensa alle coccole. A quel tempo da lei ho preso più sberle - tutte più che meritate - che bacini. 

Ma oggi mi rifaccio.

Quando la vedo è tutto un bacio.
Stringerla senza romperla è un gesto che richiede attenzione,  ma lo faccio continuamente, rimpiazzando ora, con quel bacio, una ad una  tutte le sberle di un tempo.

E’ incredibile poi come, così persa in un mondo che ora le ingarbuglia anche le parole, oltre che i pensieri, una sola cosa riesca ancora a fare breccia nella sua mente appassita.

Le dico: “mama, me déto un basìn?”

Lo dico in dialetto, che non era la nostra lingua, un po' per gioco un po' perché era quella dei suoi rispettati genitori. 

E, non so se, a quel punto, sia per lei più forte il senso dell’amore che le ispira la parola mamma o la voglia di corrispondere alla mia richiesta di darmi quel poco che ha, oppure il rispetto di una sorta di ordine che le arriva da lontano e nella lingua delle regole.

Succede però sempre che si svegli, per un secondo, dal tenero torpore o interrompa il suo sommesso ed educato biascichio di parole ormai senza senso. 
Poi , con un movimento lento e delicato, mi schiocca un bel bacio sulla guancia.

In quel momento chiudo gli occhi e provo la sensazione di essere avvolto dai soffici petali di un fiore.

E penso che, sì, è proprio vero:  la bontà è un fiore che non appassisce mai.