Forse è normale, quando una vita finisce, rimuoverne i brutti ricordi, cancellarne i fatti sgradevoli, dimenticare i torti ricevuti.
Forse è anche normale, quando ti svegli da solo, accorgerti che non c’è niente da rimuovere, cancellare, dimenticare.
E forse è normale, quando questo succede, provare lo smarrimento di chi vede smascherato ogni alibi.
Io non credevo fosse così.
Pensavo bastasse rimanere aggrappato al baratro della sua malattia, osservando con freddo distacco il suo lento, inesorabile rotolamento, per accumulare emozioni utili a non soffrire in questo momento.
Emozioni legate a brutti ricordi, come le foto di un volto cambiato dal tempo e sfigurato dal morbo, che offendevano la sua bellezza naturale da diva.
O quelle connesse a fatti sgradevoli , come quando mi sentivo chiamare col nome di suo marito, il mio papà.
“Dai vecio, andémo a casa che i buteleti i ne speta” mi diceva ogni dieci minuti in piedi davanti alla porta in quei lunghissimi, insopportabili giorni in cui era il mio turno accudirla e ancora non capivo che era malata.
Quel “vecio”, era il soprannome del mio papà che, peraltro, non l’ho mai sentito chiamarla “Liliana”, ma solo, anche lui, “vecia” o, più spesso, “Bepa”. Sentirla chiamarmi così era una cosa che mi faceva bollire il sangue.
Credevo che bastassero emozioni recenti di torti subiti, come quando il suo scivolare nell’incoscienza ha spento anche quell’ultimo barlume di presenza che le permetteva di darmi un bacio a richiesta.
O di rispondere con un perentorio
“E parché!!!”
al mio irrispettoso ed impertinente
“Mama, ma ridotta così elo mia mejo morir?”
Pensavo, insomma, che tutto questo sarebbe bastato per guardare oggi, con sollievo e senza tremori, al momento del distacco.
E invece sbagliavo.
La fine di tutto è il colpo di spugna che elimina le striature più amare.
E, quando ti svegli da solo, le nere visioni accumulate là dentro il burrone, sbiadiscono d’un tratto, travolte e ricoperte dalla luce dei ricordi più belli.
Così, di colpo, il dolore è più forte di ogni corazza.
Così, di colpo, capisci che la sua impronta di luce una volta così luminosa e che pensavi offuscata, era solo mutata nella sua forza vitale.
Quella forza che le ha fatto vivere quest’ultimo scampolo di sofferta esistenza senza chiedere niente, ma, come sempre, donando tutto ciò che poteva.
Anche solo il piacere che offriva nel vederla gustare una caramella o cibarsi da sola senza pretendere l’accanimento di aiuti così comuni in queste tragedie.
O, infine, il gesto di inconsapevole, ma spontaneo amore, che le ha fatto esalare l’ultimo respiro solo dopo aver ricevuto, senza alcuna ragione pressante, la visita di noi tre, suoi figli.
Grazie Mamma, perché anche questo dolore così penetrante da bucare ogni corazza, è , in fondo, il dono più “giusto” che la linea di una lunga vita possa offrire ad un figlio.
Ora puoi passeggiare, nel mondo dei nostri ricordi assieme a lui che, sempre lì, nei nostri ricordi ti aspettava ogni giorno da ormai molto tempo.
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