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sabato 25 aprile 2020
25 aprile
Il 25 aprile del 1945, il mio papà (quello più alto nella foto) non aveva ancora 15 anni.
Il suo corpo di adolescente, già fatto uomo, appariva ancor più slanciato dalle forme che la fame gli aveva modellato addosso.
Quella sera, il rosso di un tramonto ne accompagnava il rientro solitario verso la sua casa di Tombetta, un quartiere popolare a sud di Verona.
Indossava una camicia ed un paio di calzoni lunghi appartenuti al padre.
Costretto da sempre a vestire braghe corte, quelle di quel giorno, lunghe, da uomo, sdrucite e rattoppate, erano per lui il segno di una liberazione da una adolescenza funestata da guerra e povertà.
Erano come il passaporto di ingresso nell'età adulta.
Rincasava camminando lentamente, frastornato dagli eventi di quella iornata particolare.
Aveva osservato, stupito, le lunghe colonne di camion militari degli Alleati sfilare scenograficamente nella via di accesso alla città, tra le ali di una folla scalcagnata, ma festosa e sorridente.
Aveva udito, disorientato, le grida felici e liberatorie della stessa gente resa guardinga e silenziosa da anni di guerra ed occupazione.
Quella vista e quei rumori, così lontani dalle violenze dei combattimenti e dal sibilo delle bombe, disorientavano i suoi sentimenti in un modo nuovo ed inaspettato.
Le armi, come per incanto apparse nelle mani di vicini di casa o brandite orgogliosamente da sconosciuti partigiani finalmente a viso aperto, sventolavano nell'aria assieme ai fazzoletti delle donne dalla cenere sbiancati.
Solo il suo sguardo era guidato da quei movimenti, non i suoi gesti.
Il bianco dei fazzoletti, bandiere finalmente liberate dal simbolo di una monarchia vigliacca e connivente, contrastava col il nero della sua camicia, su cui mio padre abbassò lo sguardo avvicinandosi a quella casa dove era rimasto, rintanato, il suo papà.
Lui, il mio nonno, non poteva uscire a festeggiare.
Era sempre stato dall'altra parte.
Dalla marcia su Roma, alle guerre d'Africa, dalle colonie e fino alla milizia ferroviaria, lui aveva fatto la scelta nera, come la camicia che in quel momento stava annebbiando lo sguardo del mio papà.
Che camminava così, immerso in quel nero.
Come un automa, un passo dopo l'altro, era indeciso se essere felice per la fine di un incubo o disperato per il crollo violento di quei miti paterni.
Non sapeva da che parte stare, lui che aveva così amorevolmente assolto un padre a cui era legato da un travolgente sentimento di ammirazione.
Era ormai vicino a casa.
Sempre assorto in pensieri dilanianti.
Ma non più solo.
Dietro lui, uno di quei vicini, uno di quei partigiani, si era staccato dalla folla, imbracciando, ormai senza timore, un'arma per troppo tempo nascosta.
Lo stava seguendo con lo sguardo del cacciatore che, finalmente, ha trovato la sua preda.
Stava puntando il fucile e mirando alle spalle di quel ragazzo che, a causa del nero della camicia e della somiglianza nei movimenti, aveva scambiato per il mio nonno.
Lo aveva nel mirino e lo stava trasformando, in quella irrefrenabile euforia da liberazione, in un nemico da giustiziare proprio lì davanti a casa.
Il suo dito accarezzò il grilletto.
Fece un respiro profondo e...
Sono qui, e posso scrivere queste righe, perché una donna, sì, UNA DONNA, accortasi della cosa e capito l'orrore (e l'errore) che si stava commettendo, si parò davanti al giustiziere, gridando con quanta voce aveva in corpo: "Fermo! Fermo! Non sparare! Quello non è Adelino, il fascista, ma suo figlio, Damiano! L'è solo un butèl! (è solo un ragazzo!)".
L'uomo, forse scosso da quelle grida, si risvegliò dal delirio della violenza che stava compiendo ed abbassò l'arma, voltò le spalle e se ne andò,
A me piace però pensare che, colpito dal coraggio di quella Donna, a cui anch'io in un certo senso devo la vita, capì che la sua vera forza sarebbe stata quella di perdonare e rinunciò per sempre a quel proposito di vendetta.
Mi piace pensarlo anche perché non fece, mai, quei pochi passi che lo separavano dalla camera dove la ragione della sua rabbia stava nascosta.
Da quel giorno il mio nonno visse un po' dimesso, come a vergognarsi del suo passato, e morì, per me vecchio e malato, nel 1966.
Di lui ho un ricordo buio e severo. Stava seduto silenziosamente in un angolo del bar/trattoria della mia nonna.
Chissà quante volte e come, in tutto quel tempo che gli fu regalato dalla fine della guerra, il suo sguardo avrà incrociato quello del mancato giustiziere e chissà se ed in che modo avrà ringraziato quella Donna che lo salvò dal dolore più grande.
Mio padre, che non ha mai voluto raccontarmi di persona questa storia, non mi ha nemmeno mai narrato mezza delle pur tante gesta fasciste del suo papà.
Se ne vergognava pure lui e, senza averle dimenticate né rimosse (ché, ogni tanto, si lasciava scappare il suo giudizio negativo per quelle idee di violenza, sopraffazione e razzismo) le ha tenute sempre per sé con quel riserbo un po' burbero e tenebroso che era il suo solo modo di essere dolce.
Mi ha trasmesso però, nel breve squarcio in cui ho goduto della sua esistenza, la forza dell'amore che perdona, senza dimenticarlo, ogni errore (quanti me ne ha perdonati con immensa generosità in quei 22 anni che abbiamo vissuto assieme...).
Coraggio, perdono, ricordo.
Tre sentimenti difficili da vivere. Soprattutto non è per me il perdono per i protagonisti ed i gesti conseguenti a quelle idee né, tanto meno, per chi, oggi, non le rinnega apertamente.
Sono sentimenti che accendono la luce necessaria a vincere le tenebre di questo periodo così difficile, non solo per la pandemia, ma, in modo molto più pericoloso, per tutti i fascismi che vogliono vigliaccamente e imperdonabilmente, cancellare questo 25 aprile ed il suo unico significato di festa di liberazione dal fascismo.
P.S.: il 25 aprile del 1945, il mio nonno materno, di cui ho un ricordo loquace e luminoso, andava a recuperare, nascosta da una pietra e protetta in qualche modo, la sua tessera del Partito Comunista. L'aveva occultata perché lui, con 4 figli, non se l'era sentita di lasciarli in preda alla fame ritirandosi a combattere sulle montagne. Per lui, figlio di un macchinista ferroviere anarchico (non so che viso avesse...) una mancanza di coraggio che, forse, non si è mai perdonato. Ma questa è un'altra storia...
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