Per dir la verità non so se quel giorno a Verona nevicasse.
La neve, i miei l’avevano lasciata di sicuro a Moncucco, una frazione vicina al
Brennero dove allora abitavano.
Per non aver mai chiesto niente di preciso su quei momenti, il
massimo che so è che sono nato in Via Marsala in quella che all’epoca era una Maternità
e che mi sono presentato al mondo (forse alle 5, ma non ricordo se di mattina o
pomeriggio) non proprio con la testa.
Anzi, ero talmente seduto che il medico che mi ha fatto nascere ha
consolato i laceranti dolori della mia mamma con una promessa che sarei stato
per certo un buon impiegato.
Il pensiero di una mamma giovane, scaraventata in città a partorire dalle nevi
di quella avventura d’amore appena iniziata, ma già segnata da un aborto compiutosi pochi mesi prima su una slitta, mi accompagna per tutta la giornata.
E così, cogliendo al volo l’occasione per me relativamente rara di poter
pensare indietro, misurando un tempo esatto dalla mia nascita, trascino i miei passi sulla neve immaginando
i ricordi di una mamma che ora non può più ricordare nulla.
La nebbia che avvolge queste montagne è nulla al confronto di quella che
rapisce la sua mente da qualche anno a questa parte ed è per questo che ogni
pensiero, ogni augurio, ogni regalo, oggi sento che debba essere solo per lei.
Per lei che mi ha tenuto in braccio e coccolato come solo al primogenito
puoi fare.
Per lei che mi ha insegnato a contare e a scrivere, molto prima che andassi
a scuola stimolando la mia voglia di fare e di imparare vivendo la cosa come un
bisogno e non un obbligo.
Per lei che mi ha sempre fatto sentire parte di una famiglia speciale, con
un papà importante anche se semplice ferroviere e portatore di una dignità da nobili, umili
e mai altezzosi, in un quartiere che definire popolare, soprattutto negli anni
in cui Verona era la Bangkok di Italia, è già fare un complimento.
Per lei che soffriva di non poter andare a messa la domenica per finire i
vestiti delle sue clienti da sarta in casa e ci mandava me e la Cristina che
puntualmente invece preferivamo gironzolare per il quartiere.
Per lei che, casalinga con la quinta elementare, trascinando anche il mio papà, si
è inventata un ruolo di rilievo nel quartiere e nelle Circoscrizioni quando i
Decreti Delegati hanno aperto in qualche modo le porte della scuola ai genitori
e agli studenti.
Per lei che fingeva di non accorgersi delle cinquanta o cento lire che le
rubavo dal portafoglio ben sapendo che, al più, servivano per una panna montata
dal gelataio che a quei tempi le mancette non si usavano ancora. Non so come le
giustificasse al mio papà, ma so che di certo non c’è stata mai una discussione
in casa su questo.
Per lei che io non ho mai capito che il suo fare rigoroso da me detestato violentemente
negli anni dell’adolescenza non era bigottismo, ma rispetto della sua storia
fatta di privazioni e di riscatti che al giorno d’oggi sembrano leggende.
Per lei che, quando si è trattato di rimboccarsi le maniche per andar
dietro al sogno del mio papà di avere una trattoria tutta sua, non si è
risparmiata nemmeno un secondo lavorando senza sosta e tirando fuori una grinta
che oggi definiremo da manager di primo piano.
Per lei che quando, ammazzato dal suo stesso sogno, il mio papà ci ha
abbandonato, ci ha protetti con una forza di papà e mamma assieme, senza mai
chiederci un momento di attenzione.
Per lei che, nel momento in cui noi figli, ormai grandi, abbiamo spiccato
il nostro volo, ha saputo reinventarsi una vita intensa di volontariato riempendo d’amore un
mare di persone che, oggi, purtroppo l’hanno cancellata dalla loro storia.
Per lei che con la sua dolcezza di nonna ha impresso nei miei figli il
ricordo di una presenza enormemente più preziosa dei minuti veramente trascorsi
assieme.
Per la sua dolcezza immensa quando, ormai già preda della malattia
schifosa, ritirò un Premio della Bontà chiedendosi perché mai fosse toccato
proprio a lei.
Potrei continuare per ore a ricordare. Potrei perdermi nei dettagli delle
ribellioni e delle violente discussioni che spesso hanno accompagnato i miei
comportamenti (mai i suoi) o parlare delle mille altre attenzioni che ha saputo
rivolgere a me e ai miei fratelli.
Ma oggi è il mio compleanno giusto e non posso non pensare al regalo che mi
ha fatto lei. Oggi, 56 anni dopo, mi guardo l’ombelico e penso che quel giorno,
neve o meno, un qualcuno, non so a che ora, ha tagliato il mio cordone
separandomi da una donna che aveva urlato di dolore fino a pochi attimi prima e
che ora mi stringeva con gli occhi lucidi e la forza di un amore che sento
ancora adesso quando me la sbaciucchio nella sua nebbia.
Lo so, lei non può più dirmi niente di quella volta, ma domani, quando
andrò a trovarla, glielo chiedo lo stesso e qualsiasi cosa mi risponda le darò
un bacio forte.
P.S.: La vita è strana a volte, o forse sempre.
Stavo scrivendo questo post, ero solo all’inizio, ma ho dovuto
interrompermi per la cena.
A tavola ho ricevuto dei Whatsapp. Erano di mia sorella e poi di una cugina di
mia mamma, Graziella, più giovane di lei. Io non la sento da anni e il suo contatto me lo ha passato Cristina.
Trascrivo i messaggi che ci siamo scambiati senza commenti che, di lacrime, ne ho versate già fin
troppe…
Scrive Graziella a mia sorella (che mi gira il messaggio):
Ciao Cristina, spero vada tutto bene. Se non erro oggi è il compleanno di
tuo fratello Diego. Se sì fagli tantissimi auguri. Un grande abbraccio a tutti
in particolare alla mamma.
Io scrivo a Graziella:
Ciao, sono Diego. Grazie mille per gli auguri che mi hai fatto tramite
Cristina. Mi piacerebbe vederti, sicuramente ricordi un sacco di cose della mia
mamma che lei non può più dirmi… Se vuoi ci vediamo! Ciao
La sua risposta:
Ciao Diego, ieri pensavo a quando sono venuta a trovare la tua mamma in
clinica. Eri bellissimo. Ed io ero strafelice tanto che durante l’estate mi
hanno portato con loro a Moncucco (tra Colle Isarco e Brennero). Ti ho tenuto
tanto in braccio. Ci sono dei bellissimi ricordi che veramente possiamo
condividere. Intanto ti abbraccio forte. Graziella
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