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domenica 20 novembre 2016

Il Poeta e il Poliziotto


Di corsa, arruffato e quasi ricoperto da uno strato di polvere vintage (provenienza certa anni '50) sono riuscito lo stesso a sedermi al posto prenotato all'ultimo al Pavillon. 

La mia fila è quasi alla fine della lunga platea. 
il pianoforte di Danilo Rea (Fazoli) e il microfono di Gino Paoli (non riesco a leggerne la marca...) sembrano emergere da un orizzonte lontano. 

Il posto accanto a me è vuoto. 

Avevo prenotato anche per Elisabetta, ma seguirmi in queste domeniche di lavoro milanese è oggettivamente difficile per lei. 

La sedia libera però non sfugge ad un signore che mi chiede se posso scambiare il posto con lui. Quando capisce che i posti che gli concedo sono addirittura due, proprio come stava cercando, mi ringrazia mille volte.

Così, da qualche fila più avanti, assisto al ripetersi del miracolo del Poliziotto con mille dita: Danilo Rea. 

Da quel Fazioli escono rotoli di note così armonicamente sincopate che trasformano, senza dileggiarle, le piu belle canzoni del cantautore genovese. 

Che, un po' annoiato come sempre,  si lascia andare, con la sua voce  inconfondibilmente   rugosa ad un repertorio variegato ed altalenante, tra canzonette napoletane e melodie francesi, passando ovviamente per i suoi pezzi più classici da La Gatta a Sapore di Sale, dal Cielo in una stanza a Una Lunga Storia d'amore. 

I due (anzi solo Rea) regalano anche un medley con alcune delle più belle canzoni di Amici non ci sono più. Quanto tocca a Bocca di Rosa, arrangiata dalle cento mani meravigliosamente jazz del pianista, non so cosa è successo, se sia stata la polvere anni '50 che mi porto dalla casa di Via Papa o, forse, chissà, ma i miei occhi hanno iniziato a lacrimare.

Bella serata, davvero, le magie del Poliziotto Rea (lo chiamo così per la sua posa composta e il suo panciotto da commissario) e le Poesie di 
Paoli, cantate col disincanto di chi le ha viste tutte e non ha niente da perdere a mettersi in gioco, le sue parole, la sua musica, ma soprattutto quel sapore da 45 giri che la sua voce ha risvegliato nella mia memoria, hanno cancellato cone d'incanto, la stanchezza di questo ennesimo week end da manovale...

domenica 30 ottobre 2016

Il complotto dell'ora solare

Dunque, Asia, la nostra golden retriever di ormai ben 10 anni è, come tutti i cani, metodica ed abitudinaria. 

In particolare per quel che riguarda l'orario dei pasti, riesce, in ogni condizione, a spaccare letteralmente il secondo. 

Possiamo essere a casa a Verona, o a Milano, oppure in camper, o in vacanza in qualsiasi altro posto che, immancabilmente, alle 7 della mattina (secondo più, secondo meno e non sto esagerando) lei si presenta pimpante a fianco del letto dalla parte di Elisabetta e, scodinzolando rumorosamente, ci obbliga all'alzataccia con riempimento di ciotola (il solo odore delle crocchette, a quell'ora, è come un calcio nello stomaco) e supporto all'assolvimento dei suoi bisogni (che varia dall'apertura della porta, quando siamo a casa, alla passeggiata "milleodori" se siamo in giro). 

Questa notte, mentre scattava l'ora solare, dormivamo beatamente a Milano (situazione che ci obbliga alla passeggiata millefiori perché non abbiamo giardini) e qui è avvenuto l'incredibile.



Alle 7.00 in punto (la sveglia OREGON che proietta sul soffitto le ore si ferma ai minuti...) Asia entra in camera nostra ed inizia a scodinzolare e zampettare dalla parte di Elisabetta che sta dormendo il sonno dei giusti.

Io, invece, la sento e ricerco nel dormiveglia la giusta imprecazione per ordinare alla piccola pelosa di stare giù, zitta e buona, con l'intento di abituare, fin da subito "la bestia" ad aspettare le "nuove" 7.00 dei prossimi mattini fino al ritorno dell'ora legale.

Infatti ho dimenticato di portare indietro l'orario della sveglia e quindi (penso) le 7.00 che segna ora saranno in realtà da domani in poi (dopo il mio intervento) le 6.00.

Asia accetta malvolentieri il mio ordine e si accomoda pesantemente  con il solito tonfo di protesta sul pavimento, mugugnando con un verso che trasmette senza veli tutta la sua contrarietà.

Poi succede ciò che non mi aspettavo.

Passa neanche mezz'ora e la sveglia del mio iPhone, impostata, nonostante la domenica, alle 7.30 per  permetterci di iniziare di buon'ora le attività nella casa di via Papa,  suona impietosa.

Cosa c'è di strano, direte voi.

Niente, niente, solo il fatto che l'iPhone cambia automaticamente l'ora da legale a solare e quindi, se era impostata alle 7.30 ed ha suonato dopo mezz'ora da quando la sveglia proiettava le 7.00, significa che anche la sveglia cambia automaticamente da ora legale a ora solare.

Ma allora, anche Asia che è entrata a reclamare le sue crocchette alle 7.00 in punto ha aggiornato automaticamente il suo conto alla rovescia verso le crocchette del mattino.

Oppure, come ha ipotizzato Elisabetta, ha imparato a leggere le ore sul soffitto...

Da una persona  "non umana" come Asia,  nel senso che non appartiene al genere umano, ma riesce ugualmente ad amare ed essere amata come uno di noi, ci si può aspettare molto, ma questo episodio  è davvero strano....
   

P.S.: più o meno alla stessa ora in cui accadeva questa inezia, la terra del Centro Italia tremava furiosamente, per fortuna senza fare vittime  e un'imbecille, con i neuroni in rivolta (l'unico vero complotto che ha ispirato pure il titolo di questo post) pubblicava un tweet sul complotto governativo nella valutazione del grado del sisma. Povera bestia "forse umana", lei...

martedì 2 agosto 2016

Roma città persa

Roma città persa. 

Il gioco di parole con "Roma Città Aperta" evoca la condizione  che Roma si attribuì nell'agosto del '43 per evitare di essere distrutta dai combattimenti e dai bombardamenti degli Alleati che risalivano faticosamente la Penisola.

Una condizione disperata che, se riuscì a salvare i monumenti, colpì invece in modo drammatico i suoi abitanti che furono oggetto di deportazioni e rappresaglie rappresentate anche in film memorabili come quello omonimo di Rossellini. 

La disperazione che coglie oggi gli abitanti (ed i visitatori) di Roma è, per fortuna, profondamente diversa e nemmeno comparabile a quella provocata da una guerra così crudele. Ma, visto che siamo abituati bene, lascia un segno profondo.

E' più un senso di smarrimento che un dolore lacerante.


Ti perdi, senza scampo,  di fronte alla sua bellezza universalmente unica perché Roma
 è, sfido chiunque alla smentita, la più bella città del mondo. 
Il suo fascino irresistibile sprigionato dalle decine di ere sovrapposte ti avvolge per chilometri e chilometri.




Nessun insediamento urbano, per quanto irripetibile come Venezia (che btw è sempre Italia) o multietnico come Londra (che, btw, non è più Unione Europea) riesce ad ammaliarti così intensamente.


Roma è smarrita anche in se stessa.


Risucchiata verso un (speriamo non) irrecuperabile degrado che invade ogni androne, ogni marciapiede, ogni strada.

Che tu sia in un quartiere "nobile" come Prati, oppure nel centro storico, vicino al Teatro Marcello, così come in una prima periferia tipo la Nunziatella o nel nostalgico quartiere della Garbatella, le sue strade sono piste di tirassegno ai birilli umani che caracollano veloci sulle strisce pedonali, i suoi marciapiedi  depositi di volantini ammuffiti su strati di foglie secche, i suoi lampioni bacheche per svuota solai o rivenditori d'auto,  i suoi angoli spalle di appoggio per sacchi neri pieni di ogni tipo di rifiuto.

Sarà per il torpore, lacerato tra 
bellezza assoluta e rabbia per l'incuria, che anche la nostra giornata ha preso una piega di smarrimento fin dalle prime ore della mattina.

Il proposito di vivere una Roma diversa esplode dopo la classica visita alla meravigliosa fontana del Bernini a Piazza di Spagna, sopravvissuta all'idiozia degli invasori nordici così civili e bacchettoni a casa loro ed irrimediabilmente imbecilli a casa degli altri.


Una lunga passeggiata verso il Campidoglio sotto un sole africano ci ha fatto (per fortuna) inciampare a Palazzo Cipolla, in via del Corso, dove la mostra di Bansky (che le bufale di internet davano chiusa al lunedì) era invece invitantemente aperta e per niente affollata.


Abbiamo così potuto godere, in rilassata ammirazione, delle 150 opere del più famoso ed incognito Street Artist del momento. 


Originario di Bristol, ha girato mezzo mondo diffondendo con i suoi grafiti un solitario e purtroppo inascoltato messaggio di protesta contro le guerre e le sopraffazioni sui popoli (in particolare quello Palestinese).



La mostra ospita riproduzioni ed originali dei sui pezzi più famosi, salvati in questo modo dallo sgretolio del tempo a cui lui vorrebbe vederli condannati.












L'impronta di giornata alla caccia di una Roma diversa si è interrotta solamente con la sosta estasiata al cospetto della statua di Marco Aurelio al Campidoglio.

Peccato che sia solo una copia dell'originale, restaurata ed esposta ai Musei Capitolini, perché la luce del suo bronzo dà l'illusione di una riuscita rivoluzione di bellezza, liberata com'è dal verde delle ossidazioni con cui siamo abituati a vedere questo genere di statue.

Autentica e non certo restaurabile perché destinata a dissolversi lentamente è invece l'opera d'arte "Triumph & Laments" di William Kentridge (www.triumphandlaments.com).


Un interminabile graffito di sagome gigantesche che accompagna la sponda del Tevere da Ponte Sisto a Ponte Mazzini.

I disegni sono ottenuti ripulendo le pietre degli argini "ricalcando" le forme con la tecnica degli stencil (noi diremmo stampino, più formalmente normografo).

Lungo i circa 500 metri, figure evocative raccontano le gioie ed i dolori di questa città: dalla lupa dei Gemelli alla tragedia di Aldo Moro passando per il bacio tra Marcello (Mastroianni) ed Anita (Edberg).







Anche il pranzo ha voluto essere un po' diverso. 

Stremati dal caldo e dalla fatica abbiamo goduto dell'ombra di un cortile per assaggiare  dei saltimbocca (senza infamia e senza lode) in una trattoria in Piazza della Moretta.

Da lì, con un taxi, ci siamo immersi nella zona periferica e non certo nobile di Tor Marancia, dove, sulle facciate delle case di un isolato ICP (Istituto Case Popolari, all'epoca non era ancora Autonomo) voluto da De Gasperi nel '48 per salvare dal degrado una zona denominata Shangai a  causa delle putrescenze liquide in cui versava, una quindicina di street artist hanno lasciato un segno di bellezza che risolleva di speranza una zona che le speranze le aveva ormai perdute.


Il progetto, dall'altisonante nome "Big City Life" (www.bigcitylife.it), espone a cielo aperto una quindicina di opere d'arte orgogliosamente adottate ed accudite dagli abitanti del quartiere.

(Non posso negare di aver pensato all'isolato di Via Papa, a Milano, dove spero tra non molto muoverò i miei bagagli da "commuter").






Non contenti di questa immersione abbiamo vagato, persi come la città stessa, alla ricerca della giusta direzione di un autobus che doveva portarci in centro, ma ci ha invece fatto aspettare più di quaranta minuti sotto una pioggia "vietnamita" nel periferico quartiere della Nunziatella.


L'occasione è stata buona però per perderci poi, di nuovo, nel fascino popolare della Garbatella, teatro all'aperto così caro agli sceneggiatori televisivi, affascinante per la sua architettura intrisa di retorica del Ventennio.


Le sue case, con le officine ed le trattorie negli scivoli che portano agli interrati studiati dai gerarchi architetti come ricoveri da dopolavoro, contrastano nel loro neorealismo con le violenze di protesta più sinistroide sui muri dell'adiacente Via dell'Armatore.

















L'ennesima deviazione sbagliata (e, quando sbagli mentre cammini dopo ore l'errore pesa il triplo) ci porta in una zona, se possibile, ancor più degradata, verso la circonvallazione ostiense. Il richiamo agli Argonauti (questa è la zona) si stampa sui muri delle case qui attorno con grafiti degni di qualche foto.


Distrutti, ma persi nel piacere di questa Roma un po' diversa, abbiamo festeggiato poi la grande performance nel "piccolo"  ultimo esame dato oggi da  Luca, stramangiando alla Romana tradizionale alla Sagra del Vino (Via Marziale) meglio nota come "da Candido" l'oste che, assieme al figlio, presentano, ruvidi e declamanti, un menù da trigliceridi come una medicina toccasana.








giovedì 14 luglio 2016

L'Ottocento senza futuro

“DOPO GIUNTO MIA STAZIONE TRENO 1018 CHIEDO INVIARE TRENO 1023”.

Chissà se il capostazione di Andria ha usato il telefono di servizio,  un SMS, Whatsapp o Snapchat  per inviare al capostazione di Corato il dispaccio ottocentesco previsto dal RCT (Regolamento Circolazione Treni) nel caso di circolazione con Blocco Telefonico.

Chissà se, il capostazione di Corato (o viceversa,  questa non è una ricostruzione per la Commissione di Inchiesta delle Ferrovie né, tanto meno, per la Magistratura) ha alzato quella cornetta, così pesa di secoli,  e ha risposto “VIA LIBERA TRENO 1023”  o se era distratto da apparati più moderni, ma per niente utili in questo caso, ad evitare che 25 persone morissero come sono morte pochi minuti dopo.

Chissà se i due hanno alzato assieme lo sguardo da quegli aggeggi ed il culo da quelle sedie e compiuto il  gesto antico e rispettoso di inserire la chiave di sblocco del segnale  nell’ottocentesco apparato dopo che il deviatore aveva sollevato pendolando a forza il “macaco”  (quell’arcaico contrappeso che posiziona lo scambio nella giusta posizione) o se invece era già tutto pronto così,  per superficiale comodità,  apatica consuetudine di sequenze ormai centenarie come le regole che le dovrebbero scandire.

Chissà se, adagiati nell’abitudine quotidiana intervallata dai numeri pari e dispari dei convogli, hanno interpretato tutte le figure dell'antico balletto o hanno semplicemente dato per scontato che ad Andria si aspettasse l’arrivo del pari per giocarsi le vite sul dispari.

Fatto sta che, oggi, venticinque sfortunati che avevano - loro sì - tutto il diritto di distrarsi digitando sul telefonino o parlando col vicino,  di abbracciare la mamma per avvolgere, nella dolcezza, il dondolio della carrozza  o di sonnecchiare cullati dallo stesso rollio,  oggi, questi venticinque innocenti, non ci sono più.

Stritolati da una curva che ha impedito qualsiasi reazione ai due macchinisti.

Due poveracci (loro, forse si) che hanno obbedito all’ordine di una paletta verde magari nemmeno alzata - anche questo per consuetudine consolidata - e non si sono nemmeno chiesti perché partivano senza aver visto prima arrivare il solito treno che tutti i giorni entrava in stazione poco prima della loro partenza.

Sarebbe davvero normale che si capisse in fretta come è andata e che ci venisse raccontato bene tutto quanto, senza barbari accanimenti, ma anche senza inutili poesie contro regolamenti arcaici che, se rispettati, hanno fatto viaggiare miliardi di persone per centinaia di anni.

Il mio pianto, inutile e distante e quello più profondo ed inconsolabile dei parenti è offeso dalla superficialità che ha portato a tutto questo, anche questa purtroppo diventata abitudine consolidata, e dal sapore amaro e fortissimo del contrasto tra la modernità delle stesse carrozze accartocciate in quella maledetta curva, tra il fascino moderno di quei telefonini forse causa di distrazioni imperdonabili,  finanche tra la rapidità ed efficienza dei soccorsi,  tra la corsa alla solidarietà di una terra meravigliosa come la Puglia ed un regolamento ottocentesco che richiede, per forza, un amore per la disciplina ed un rispetto delle regole che non fa più parte delle cultura degli smartphone.

Non consola pensare che forse è peggio quell’imbecille di Schettino che si “inchina”  - anche lui in barba ad ogni regola - e, comodamente sistemato in banchina, osserva morire 35 persone, rispetto a quei due (certamente più) poveracci che hanno pensato fosse stupido fingere di essere nell’Ottocento quando in mano hai un oggetto che ti fa vivere nel futuro.

Il fatto è che loro erano pagati (magari poco, o non abbastanza e di sicuro meno dell’imbecille) proprio per vivere senza quel futuro che invece hanno tolto, purtroppo per sempre, a quelle venticinque (e forse più) anime.

Ecco, io non riesco a prendermela con i regolamenti ottocenteschi. Abbiamo migliaia di orpelli simili che ci condizionano la vita di tuti i giorni. E se sono necessari o inevitabili e siamo costretti (o pagati) per osservarli, l’unico modo per evitarli (quando esiste)  è cambiare strada o mestiere.

Io me la prendo, ed il pianto non mi consola, con chi pensa che le regole siano fatte per essere, nel migliore dei casi, sottovalutate.  
Per leggerezza, abitudine, superficialità, poco importa.
Qualunque sia la ragione, diventa, senza scampo, imperdonabile quando, a quelle regole, sono appesi i sogni di futuro anche di una sola persona.




P.S.: lo so, potrebbe essere andata in modo completamente diverso.  E la mia  è , per certo, una ricostruzione interamente arbitraria e personale. Ma, quando avevo 23 anni ed una capacità di apprendimento almeno il doppio di quella di oggi, mi sono messo bene in testa, assieme alle Varietà di Riemann ed alle equazioni del campo gravitazionale richieste per superare il mio esame di Relatività Generale, anche le più ordinarie regole ottocentesche del Regolamento Circolazione Treni necessarie per passare l’esame di Movimento ed ottenere l’abilitazione a fare il capostazione.
Ricordo, tutt'ora, nonostante l'età,  che  guardavo le due materie con lo stesso referente rispetto.
Consapevole anche che, se con le equazioni della Relatività Generale magari capivamo bene perché il gemello che viaggia invecchia meno di quello che sta fermo, con le regole del RCT  quello stesso gemello poteva esser sicuro di non morire viaggiando. 
Ecco perché questa storia mi ha colpito così tanto.

P.S..2 : Cercando il numero e l’orario dei treni in quella fascia sul sito internet delle Ferrovie del Nord Barese ho visto che , secondo l’orario stesso,  il treno proveniente da Corato arriva ad Andria un minuto dopo la partenza del treno che da Andria viaggia verso Corato.
Ora, mi chiedo come ciò sia possibile se, come tragicamente sappiamo essere vero,  tra le due stazioni c’è un solo binario. 
Forse non è così per tutto il tratto, o forse sarà solo un errore del sito. 
Un semplice, superficiale, errore. 
Esattamente come quello che ha generato questa inconsolabile tragedia.



















sabato 25 giugno 2016

Il pugno di una donna

24 giugno 2016.


Il risveglio, baciato dal riflesso blu che buca il finestrone del mio hotel affacciato sul mare, viene subito risucchiato nell'incubo Brexit che cancella in un solo colpo il sogno europeo. 

Nella fatica di mettere a fuoco uno sguardo, ancora assonnato, sulla notizia del giornale online, cerco di confonderne le parole e mi dico che non sto leggendo bene. 

Non accade però purtroppo come negli incubi da bagnacauda che, quando ti rendi conto che è tutto troppo brutto, ti autoforzi alla sveglia e, col cuore in gola, ti solleva la presenza del comodino al posto del plotone nazista che ti stava fucilando. 

Oggi il plotone, per fortuna, non è nazista.

Parla a malapena un Inglese da ignorante, ma è un po' come mi avesse fucilato davvero. 

Di certo l'idea di un'Europa, difficile, sofferta, ma aperta ed un po' cosmopolita come Londra, si accascia sotto i colpi populisti ed egoisti del 52% degli Inglesi. 

Colpisce che siano i rincoglioniti dai tabloid e dalle TV commerciali, over 65 o giù di lì, ad aver deciso per quei giovani che amano l'Europa viaggiando e studiando in giro e che si troveranno a vivere in un'isola più piccola ed egoista almeno quattro volte più a lungo di questi vecchi ignoranti ed imbecilli che spero paghino caro e da soli un conto molto salato (questo non è un articolo di giornale e posso scrivere quello che voglio compresa una versione rivista della bestemmia di mussoliniana memoria e rivolta alla "perfida Albione" : "dio stramaledica (il 52% de)gli Inglesi") 

Colpisce anche che, proprio chi ha ancora una memoria della fatica fatta per aprire le frontiere ed avere dato a noi ed ai nostri figli la possibilità di vivere in una piccola porzione di mondo in pace, nella quale muoversi e trasferirsi era diventato più facile, abbia deciso di chiudersi di nuovo in casa, ammaliato dal qualunquismo e dalla assenza di idee di chi non capisce che il mondo va avanti e finge che basta fermarsi e barricarsi per cambiarlo. 

Sarà il fatto che, nel lontano 1979, quando ancora l'Europa era ad una cifra  (!), spendevo una vacanza assieme a ragazzi spagnoli, francesi, tedeschi (gli inglesi già allora non erano venuti) a parlare di Europa non solo come MEC (mercato comune europeo) o che nel vicino 2015 Enrico si è trasferito a Londra a lavorare dopo aver fatto l'Erasmus e poi uno stage in quella città considerata anche un po' nostra. 

Sarà che in questo lungo lasso di tempo, tra mille difficoltà e tentennamenti, impatti economici e benefici culturali, aneliti di pace e complessi di inferiorità, l'idea di tornare indietro sembrava poter essere legata solo ad eventi traumatici come il fallimento di uno stato (vedi Grexit). 

Sarà che ancora non si riesce a fare nostro fino in fondo il vero problema che forse è alla base di questa reazione che è  lo squilibrio con altri mondi flagellati da povertà di radice europea e guerre religiose (non è un articolo e potrei tirare la bestemmia giusta per ogni dio che porta i fedeli alla guerra, ma questa volta non lo faccio). 

Sarà per mille altre ragioni che non riesco ora ad esprimere, ma questo stramaledetto Brexit, avvolto dal profumo del dolce mare di Bisceglie, mi ha colpito in faccia come il pugno di una donna. 

È veramente uno shock.

Le evoluzioni saranno imprevedibili come (incredibile) imprevedibile è l'impreparazione che traspare dalle reazioni, ancora poco lucide, che trapelano dai giornali (alcuni anche impreparati a titolare...)



Nella mia tristezza, spero si vada velocemente verso un divorzio in cui si regolino equamente e senza sconti gli aspetti economici e si mantenga, come purtroppo non spesso accade nella realtà, un rapporto di amicizia con la porta sempre aperta, soprattutto per quei figli che hai abituato ed illuso che la casa fosse una sola. 


P. S.: tutto questo accade mentre sono "giudice" ad un hackathon ovvero una maratona di presentazioni di start-up di giovani (e meno) che hanno idee più o, molto spesso, meno digitali.
L'entusiasmo e la voglia di mettersi in gioco di questa gente, molto più della brillantezza delle loro idee, attenua solo un po' il sapore amaro da cambiamento insensato che attanaglia anche la platea di "papaveri" che presenzia a questo Digithon (www.digithon.it)



domenica 12 giugno 2016

I (quasi) cent'anni di Francesco Guccini

Un enorme nuvolone nero, carico di pioggia copre, a tratti, la Luna e Giove che si baciano furtivi sopra i tetti della parte più bella di Verona. 






Per tutta la serata, il nero sipario davanti al romantico tramonto dei due astri incombe minaccioso sull'Incontro con Francesco Guccini, rendendo ancora più incerto e nostalgico il sapore di una serata così diversa da quella di un suo concerto. 

Francesco arriva puntuale come le bottiglie di vino poste sul tavolino da talk show al quale si siede accompagnato dal giornalista (non certo ignorante, almeno di musica) Enrico de Angelis. 



Appesantito e lento nei movimenti, sembra una ripresa, deformata dal rallenty, delle goffe movenze da cantastorie che hanno accompagnato i suoi concerti da un certo punto in poi. 

Una volta fatta l'esperienza ( mai ripetuta e quindi probabilmente non memorabile) all'Opera di Parigi, nel lontano 1987, il suo modo di stare sul palco cambiò infatti radicalmente e a me fece davvero strano la prima volta che lo vidi, forse era l'89,  in piedi, volteggiare a mano libera, invece  che seduto vicino a Flaco (o a Jimmy Villotti prima). 

In tutti i suoi concerti visti fino ad allora, da solo o accompagnato, stava seduto imperterrito, imbracciando la chitarra. Il più ampio dei suoi movimenti era, troppo spesso, quello dell'aggancio del fiasco vicino alla sedia.

A partire da quello del 31 marzo 1977 al Teatro Laboratorio in cui, inconsapevolmente, mi trovai in mezzo al gruppo di autonomi che lo costrinsero ad interrompere la performance alla canzone  "E un altro giorno è andato" dal momento che i suoi inviti ("i cinesi stiano zitti!") caddero inascoltati, venendo dilaniati dalle urla degli incazzati abusivi. 

Oppure in quel concerto a Sant'Ambrogio di Valpolicella, in un capannone freddo e senza acustica, dove un muro, si, proprio un muro alto tre metri, divideva il pubblico in due. 
Mi ricordo che Francesco ci ricamò sopra una storiella da morir dal ridere, incitando una volta una parte, una volta l'altra. 

O a Isola della Scala, nel 1980, già accompagnato dalla sua band storica, illuminata da un faro sul retro-palco puntato sulle orecchie di Ellade Bandini (che fu preso in giro tutta la sera) restó seduto, a distanza di sicurezza dal bottiglione di vino, per tutto il concerto. 

Anche stasera è seduto, goffo ed incredibilmente appesantito.

Infagottato in un impresentabile cardigan color caffelatte, si affatica, tossicchiando, su ricordi e racconti, solleticato dalle domande di de Angelis (non molto profonde e, almeno per me, un po' troppo da presentazione di un nuovo libro). 




Racconta della sua caduta ad Auschwitz, durante il suo recente pellegrinaggio e del ribrezzo che prova a vedere la mancanza di memoria che anima la rinascita di gruppi neonazisti.
Così come vomita, senza ritegno, la sua condanna per gli imbecilli de "Il Giornale" che regalano, con la scusa di una lettura critica, il Mein Kampf di non ricordo più che autore. 
Ci scherza sopra, dicendo che, probabilmente, gli imbecillì nonché ignoranti, avranno pensato che si trattasse di un trattato di agricoltura sui Miei Campi...


Senza scossoni e con la solita ironia canzonatoria e spesso rivolta verso se stesso, fa la sua parte di arguto e distaccato osservatore che gioca con le parole per trasmettere emozioni. 



Parla del libro e dei sui occhi da bambino che accompagnano il matrimonio del paese, o di quelli, più furbetti che cercavano, più avanti, l'intorto tra le note strimpellate nelle balere giovanili. 

Descrive gli anziani del suo paese assorti nel rito, esclusivamente maschile, delle chiacchiere ai funerali, seduti sui gradini, contrapposte alle devote preghiere delle donne che, sole , entrano in chiesa. 
Ci accompagna nel mulino dei nonni e ci presenta le macchiette della sua Pavana  che, dice, non fa neanche comune mentre meriterebbe di essere capoluogo di provincia (o di regione che le province non ci sono più...). 

Spiega il significato di alcune incomprensibili parole  presenti nel suo libro, rovistando le province di Mantova, Ferrara, Pistoia alla ricerca del loro etimo. 

Confida il suo amore per i gatti, prendendo in qualche modo, con rispettoso tatto, le distanze da chi preferisce i cani, ottenendo l'effetto di spaccare in due il mormorio delle duemila e più persone arrampicate sulla collina del Teatro Romano.

E, a proposito del pubblico (che lo ha accolto intonando un affettuoso "Tanti auguri a te" in anticipo di tre giorni) era quello che mi aspettavo: un mix di giovani (in netta minoranza, ma tutti preparati...) e meno giovani, rassegnatamente composti e di certo un po' tristi, di fronte alla certezza che non avrebbero ascoltato nessuna canzone uscire dalla voce del Maestrone. 

Un pubblico che non ha trasmesso agitazioni da concerto. Nessuna maglietta con il Che, nessuno striscione, nessun richiesta urlata per l'Avvelenata. 
Un pubblico di persone innamorate, insomma, ma abituate ormai all'assenza della sua voce dal vivo. 

L'intervista finisce infatti senza nemmeno l'accento di una sua nota, intervallata soltanto da qualche filmato d'epoca già visto mille volte e poche foto invece, quelle, meno famose. 

La mancanza della sua voce si è fatta sentire ancor più forte nella seconda parte della serata quando i Musici si sono avvicinati agli strumenti. 

Juan Carlos "Flaco" Biondini voce e chitarre, Vince Tempera tastiere, Antonio  Marangolo sax, con lui da (quasi) sempre,   Pierluigi Mingotti al basso (con lui dal 2001) e uno straordinario e gigantesco batterista, Ivan Zanotti (classe 1980...) che con lui non ha mai suonato. 




Musicisti strepitosi che hanno inanellato, dedicandole a Francesco, lentamente accomodatosi in prima fila, una bella serie di canzoni storiche: Incontro, Autogrill, La Locomotiva, Asia, il Vecchio e il Bambino, Cirano, Eskimo. 

Con il blues rivisto di Statale 17 hanno portato a termine  l'inchino rispettoso verso l'unicità delle interpretazioni originali evitando ammirevolmente di scimmiottare la scaletta originale. 

Ecco, se gli arrangiamenti e gli assoli dei musicisti hanno lasciato senza fiato un pubblico che non si aspettava tali sonorità jazz o, più spesso, duramente rockettare, la cadenza Argentina di Flaco, senza doppie, un po' sfasata e, soprattutto, senza la r arrotolata dal Limentra, hanno lasciato più d'uno un po' così, non dico deluso, quello no, ma, come ho detto prima, rassegnato alla mancanza del protagonista principale. 

C'è da dire che, se c'è uno al mondo a cui il pubblico di Francesco può perdonare sbavature nell'interpretare le sue canzoni, questi certamente è Flaco. 

Ed infatti, tutti i suoi tributi sono accompagnati da un sommesso coro in sottofondo che non è esploso come sarebbe esploso ad un vero concerto, ma forse solo per rispetto verso il Guccini spettatore e la sua stanchezza. 

Stanchezza che mi è parsa un po' eccessiva in confronto all'età, soprattutto quando ha detto, sia pur giustificandosi con la scaramanzia, che 76 sono troppi e sarebbe ora di chiuderla qui...




La serata è finita così, Francesco tornato sul palco, solo a salutare, ed il pubblico (non ammaestrato) di giovani e meno giovani che, ordinati e senza bandiere, hanno abbandonato un Teatro innondato di musica, ma, soprattutto, di felice nostalgia, completamente asciutti, nonostante il nuvolone ancora lì sopra la testa ed una Luna infrattata con Giove ormai sopra l'Oceano.