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domenica 31 maggio 2020

Piccola Storia Ignobile

Per chi non ha voglia di leggere, si tratta di una Piccola Storia su un ennesimo gesto onesto commesso da un ragazzo immigrato.
Da parte sua, non c'è proprio niente di ignobile.
In questo, con disprezzo di chi ne fa un programma, purtroppo vengo prima io italiano.

20 euro.
Non c'entrano molto con questa storia, ma questa è, più o meno, la tariffa per un taglio di capelli.
Sfilo la banconota dal mio portafoglio che contiene solo 60 euro in contanti, ma scoppia di tessere, carte, documenti plastificati e porgo i 20 euro a Luca che, con un ciuffo trascurato dal lockdown e dalla clausura pre-esame li intasca e ci fa sopra una battuta da adolescente che riceve la  paghetta.

Ripongo poi il portafoglio nella tasca del mio giubbino da moto e mi ri-immergo nel turbine dello smart working.

Verso sera, per la verità un po' stufo di contare savings, tagli e fare piani che chissà quante volte cambieranno, decido di prendere un po' d'aria e puntare con la moto dalle parti del centro.
Penso ai bar dalle parti di San Zeno, dove Instagram mi mostra un Luca felice e sorridente sorseggiare uno spritz di festeggiamento per la  felice conclusione di mesi di studio e delle due settimane di esami.

E' da molto che non uso la mia Heidi, una vecchia Sporster Custom 883 a carburatore.
Sarà anche per questo che, a metà strada circa, finisco la benzina e devo, come facevo con la mia Vespa anni '70, piegarmi a ruotare la valvola del serbatoio verso la riserva.

Arrivato in piazza San Zeno, giro a piedi un po' distratto ed incuriosito dalla rinascita di vita della zona. Mascherata, ma esuberante, una folla di bambini ronza con le bici nella zona sgombra di auto.

Altri bambini, più cresciuti, sorseggiano aperitivi seduti ai tavolini dei bar, distanziati di quel poco da far sembrare che niente sia accaduto.
Capiremo molto in fretta quanto, e se, pagheremo questa voglia di dimenticare che il virus è ancora qui ed uccide non soltanto le nostre radici, ma minaccia, soprattutto, il nostro futuro.

Tra gli ospiti dei bar non trovo Luca.
Non ho voglia di bere qualcosa da solo e mi rimetto in sella, appuntandomi nella mente il bisogno di fare benzina al primo distributore. Conosco bene l'autonomia di Heidi e so che non consente di percorrere grandi distanze con il mezzo litro della riserva.
L'appunto  dura però solo il tempo di ingranare la prima: arrivo infatti a casa senza soste (né rifornimenti) e senza aver messo mano al portafoglio,  né per l'aperitivo, né per il carburante.

È ora di cena e in piano c'è una pizza da asporto anche con Luca e Maria.

Quando esco per ritirare la pizza, faccio per estrarre il portafoglio dalla tasca del giubbino.

Non lo trovo e capisco subito di averlo perso.
Probabilmente è scivolato fuori durante la mia corsa in moto (ché col distanziamento sociale nessuno mi ha mai sfiorato) ma va a sapere in che punto del tragitto.
Mi rendo conto quindi della gravità del fatto, e, come sempre mi accade nei momenti di difficoltà, prevale in me un'assoluta lucidità.
Nessuna siracca, né imprecazione.
Solo una chirurgica e distaccata dissezione di ogni anfratto della casa in cui ho la speranza che il taccuino possa essere caduto prima di uscire.

Elisabetta, abituata alle mie roboanti siracche in situazioni ben meno gravi, quasi si infastidisce per la glaciale indifferenza e lucida determinazione nel seguire una sorta di check list da astronauta che guida le mie mosse in quei momenti.

Avuta la certezza che il portafoglio non è in casa, inizio la manovra di blocco delle carte bancomat e di credito.

Tutto è molto semplice ed efficiente, ma essendo la prima volta che perdo una cosa così importante, il vero giramento di palle (sempre senza siracche) parte al pensiero di denunciare e rifare tutto il resto dei documenti, patente, tessera sanitaria, carta di identità, persino la tessera della Metro di un'amica che ho ancora io.

Cerco di mitigare l'ansia da burocrazia coltivando, con un briciolo di ottimismo, la speranza che qualcuno ritrovi il mio taccuino assieme al modo di farmelo riavere.

Ed è proprio in quel momento che squilla il telefono di casa.

In questi mesi di lockdown/smart working il telefono fisso squilla spesso e quasi sempre non rispondo perché il numero sconosciuto ha tutta l'aria di essere quello di uno dei mille call center che ti propongono cambi di operatore o guanciali per la cervicale.

Ma, questa volta, il numero sembra quello di un cellulare italiano, 347....

Rispondo calmo ed il mio interlocutore,  con un fortissimo accento veronese ed una altrettanto forte inclinazione dialettale mi saluta e si presenta come lo ... spazzacamino.

Ricollego immediatamente la voce a quella dell'artigiano che, poco più di un anno fa, è venuto con il figlio a pulire, con le spazzole dell'amico di Mary Poppins, le canne fumarie del mio camino.
Certo, mi ricordo di lui ed è un piacere sentirlo, ma il camino non è certo il mio pensiero in questo momento.

Con la voce un pò agitata mi racconta di aver ricevuto una telefonata da un certo Jensen, del Ghana, il quale ha trovato un portafoglio contenente un foglietto con il suo numero ed i documenti di un certo Diego Donisi.
E lui, lo spazzacamino, che non ricordava nulla del mio nome, ha cercato su internet, trovato il mio numero di casa ed ora mi sta chiamando per darmi il numero di Jensen.

Jensen che sta aspettando la mia chiamata.

Lo chiamo subito.

Mi risponde la voce di un ragazzo, in un italiano incerto e timido.
Chiedo se ha lui il mio portafoglio.
Mi risponde di si e mi spiega dove trovarlo.
Mi dà il nome di un albergo, storpiandolo in modo che fatico a decifrarlo.
Mi parla di un campo in Zai, una zona industriale alla periferia sud di Verona.

Controllo su internet ed un albergo con quel nome esiste, ma è dato "chiuso per sempre".
Quella dicitura, assieme al riferimento ad un campo,  mi insospettisce ed inizio a pensare ad un trabocchetto.

La sua voce  però, per quanto incerta, non mi lascia alcuna paura, anzi, mi trasmette solo un senso di fiducia che ricambio senza più pensare a situazioni pericolose.

Inforco Heidi e mi dirigo verso questo fantomatico campo.

Prima di partire però, chiedo ad Elisabetta di prestarmi 50 euro, sicuro di volerli dare in cambio del mio portafoglio molto probabilmente ritrovato vuoto dei pochi contanti.

Durante il breve tragitto i miei pensieri sull'albergo chiuso ed il campo in cui mi aspetta Jensen si incrociano con una pattuglia di polizia, ferma ai lati dello stradone.
Per un attimo penso di chiedere loro se sto facendo la cosa giusta, ma vinco subito quell'inconscia diffidenza con la forza della fiducia in quella voce così giovane ed incerta.

Arrivo in pochi minuti al punto concordato.

Parcheggio Heidi ed inizio ad osservare dove sono capitato.
Si tratta, in effetti, di un albergo. Di campi, però, non c'è nemmeno l'ombra.
Certo non è un hotel a 5 stelle, ma l'edificio è nuovo e fresco di tinteggiatura.
Intuisco che si tratta di un albergo requisito per dare ospitalità a degli immigrati.

Dalle finestre delle stanze si intravede un contesto vitale, ma ordinato. Sembra quasi profumare.

Affacciata alla finestra del primo piano, una bella ragazza conversa amabilmente in una lingua che non decifro con un ragazzo che staziona in piedi a pochi metri da me.

Provo a chiedere se è lui Jensen, ma, più scocciato dalla mia interruzione del suo corteggiamento che interessato a rispondermi, mi fa segno che non capisce.

Decido di fare allora di nuovo il numero di Jensen e di chiamarlo al cellulare.
Mi risponde subito con la sua voce da ragazzo ed un incerto  "arrivo!".

Capisco che è lui per la mano che tiene in tasca quando esce dal portone dell'albergo indossando una mascherina chiara.

Una volta vicino a me, infatti, estrae la mano e mi porge il portafoglio.

Non lo afferrò subito anche perché il mio sguardo è attirato ed abbagliato dal nero dei suo occhi che mi osservano, come esitanti, dal bordo della mascherina.
Sono occhi che non sorridono e mi proiettano per un attimo in una storia di sofferenze, ma la loro luce è fiera e mi conferma, anzi amplifica, quel senso di fiducia che la sua voce mi ha trasmesso fin dal primo momento.

Esito ancora a prendere il portafoglio e ad offrirgli la banconota da 50 euro che ora tengo in mano.

Ho paura di offenderlo, ma dò per certo che il portafoglio sia finito nelle sue mani già svuotato dei 40 euro.

Finalmente mi decido, prendo il portafoglio e gli offro la banconota.
Lui, all'inizio, mi fa segno di non volerla e mi invita, con un gesto,  a controllare che ci sia tutto.
È così che apro la cerniera del taccuino e scopro che ci sono ancora i 40 euro.

Devo aver trasmesso, al di sopra della mascherina, tutta la mia gioia per quella scoperta.

Non certo per la cifra ritrovata, ma per l'onestà  che, in tutta questa storia, Jensen ha dimostrato.

E' stato un attimo, i suoi occhi neri straordinariamente luminosi hanno corrisposto alla gioia del mio sguardo e si sono accesi in un sorriso che non dimenticherò mai.
Il gesto di un abbraccio reciproco è partito spontaneo da entrambi, ma si è subito smorzato perché la mascherina ci ha ricordato che il virus impedisce ancora di essere fino in fondo umani.
Allora gli ho dato, assieme a tutte le banconote, un amichevole pugnetto sulla spalla e lui mi ha istintivamente teso la mano che io ho preso e stretto tra le mie.

Poi ci siamo salutati ed io ho ripreso la via di casa, senza soldi per la benzina, con le carte ormai bloccate, ma felice al pensiero di tornare, fosse anche a piedi, con tutti i miei documenti e, soprattutto, con la ricchezza che il gesto e lo sguardo di Jensen mi hanno regalato.

Mi rimane da spiegare il perché dell'attributo "ignobile"  di questa (non tanto) Piccola Storia.
Non è certo per ricordare il titolo di una canzone del mio amato Francesco (a tutt'altro dedicata).

Ignobile è il gusto che mi ha lasciato in bocca, poi, più tardi, il fatto di aver liquidato la luce di quegli occhi neri con il solo e banale gesto di una ricompensa.
Vorrei aver fatto e poter fare molto di più. Vorrei avere un'azienda ed offrirgli un lavoro. Vorrei, vorrei...
Ma con i vorrei sono lastricate le strade delle ipocrite buone intenzioni.
Che di solito sono soltanto, appunto, ignobili.

Magari, questo racconto, potrà colpire qualcuno meno ignobile di me e con più possibilità di aiutare questo ragazzo non solo con gli spiccioli di un'elemosina.

Se così fosse, io, il numero di Jensen, non l'ho cancellato.




















sabato 25 aprile 2020

25 aprile



Il 25 aprile del 1945, il mio papà (quello più alto nella foto) non aveva ancora 15 anni.
Il suo corpo di adolescente, già fatto uomo, appariva ancor più slanciato dalle forme che la fame gli aveva modellato addosso.

Quella sera, il rosso di un tramonto ne accompagnava il rientro solitario verso la sua casa di Tombetta, un quartiere popolare a sud di Verona.

Indossava una camicia ed un paio di calzoni lunghi appartenuti al padre.

Costretto da sempre a vestire braghe corte, quelle di quel giorno, lunghe,  da uomo, sdrucite e rattoppate, erano per lui il segno di una liberazione da una adolescenza funestata da guerra e povertà.
Erano come il passaporto di ingresso nell'età adulta.

Rincasava camminando lentamente, frastornato dagli eventi di quella iornata particolare.

Aveva osservato, stupito, le lunghe colonne di camion militari degli Alleati sfilare scenograficamente nella via di accesso alla città, tra le ali di una folla scalcagnata, ma festosa e sorridente.
Aveva udito,  disorientato, le grida felici e liberatorie della stessa gente resa guardinga e silenziosa da anni di guerra ed occupazione. 
Quella vista e quei rumori, così lontani dalle violenze dei combattimenti e dal sibilo delle bombe, disorientavano i suoi sentimenti in un modo nuovo ed inaspettato.

Le armi, come per incanto apparse nelle mani di vicini di casa o brandite orgogliosamente da  sconosciuti partigiani finalmente a viso aperto, sventolavano nell'aria assieme ai fazzoletti delle donne dalla cenere sbiancati.
Solo il suo sguardo era guidato da quei movimenti, non i suoi gesti.

Il bianco dei fazzoletti, bandiere finalmente liberate dal simbolo di una monarchia vigliacca e connivente, contrastava col il nero della sua camicia, su cui mio padre abbassò lo sguardo avvicinandosi a quella casa dove era rimasto, rintanato, il suo papà.

Lui, il mio nonno, non poteva uscire a festeggiare.
Era sempre stato dall'altra parte.
Dalla marcia su Roma, alle guerre d'Africa, dalle colonie e fino  alla milizia ferroviaria, lui aveva fatto la scelta nera, come la camicia che in quel momento stava annebbiando lo sguardo del mio papà.

Che camminava così, immerso in quel nero.

Come un automa, un passo dopo l'altro, era indeciso se essere felice per la fine di un incubo o disperato per il crollo violento di quei miti paterni.
Non sapeva da che parte stare, lui che aveva così amorevolmente assolto un padre a cui era legato da  un travolgente sentimento di ammirazione.

Era ormai vicino a casa.
Sempre assorto in pensieri dilanianti.
Ma non più solo.

Dietro lui, uno di quei vicini,  uno di quei partigiani, si era staccato dalla folla, imbracciando, ormai senza timore, un'arma per troppo tempo nascosta.
Lo stava seguendo con lo sguardo del cacciatore che, finalmente, ha trovato la sua preda.
Stava puntando il fucile e mirando alle spalle di quel ragazzo che, a causa del nero della camicia e della somiglianza nei movimenti, aveva scambiato per il mio nonno.
Lo aveva nel mirino e lo stava trasformando, in quella irrefrenabile euforia da liberazione, in un nemico da giustiziare proprio lì davanti a casa.

Il suo dito accarezzò il grilletto.

Fece un respiro profondo  e...

Sono qui, e posso scrivere queste righe, perché una donna, sì, UNA DONNA, accortasi della cosa e capito l'orrore (e l'errore) che si stava commettendo, si parò davanti al giustiziere, gridando con quanta voce aveva in corpo: "Fermo! Fermo!  Non sparare! Quello non è Adelino, il fascista,  ma suo figlio, Damiano! L'è solo un butèl! (è solo un ragazzo!)".

L'uomo, forse scosso da quelle grida, si risvegliò dal delirio della violenza che stava compiendo ed abbassò l'arma, voltò le spalle e se ne andò,

A me piace però pensare che, colpito dal coraggio di quella Donna, a cui anch'io in un certo senso devo la vita,  capì che la sua vera forza sarebbe stata quella di perdonare e rinunciò per sempre a quel proposito di vendetta.
Mi piace pensarlo anche perché non fece, mai, quei pochi passi che lo separavano dalla camera dove la ragione della sua rabbia stava nascosta.

Da quel giorno il mio nonno visse un po' dimesso, come a vergognarsi del suo passato, e morì, per me vecchio e malato, nel 1966.  
Di lui ho un ricordo buio e severo. Stava seduto silenziosamente in un angolo del bar/trattoria della mia nonna.

Chissà quante volte e come, in tutto quel tempo che gli fu regalato dalla fine della guerra, il suo sguardo avrà incrociato quello del mancato giustiziere e chissà se ed in che modo avrà ringraziato quella Donna che lo salvò dal dolore più grande.

Mio padre, che non ha mai voluto raccontarmi di persona questa storia, non mi ha nemmeno mai narrato mezza delle pur tante gesta fasciste del suo papà.
Se ne vergognava pure lui e, senza averle dimenticate né rimosse (ché, ogni tanto, si lasciava scappare il suo giudizio negativo per quelle idee di violenza, sopraffazione e razzismo) le ha tenute sempre per sé con quel riserbo un po' burbero e tenebroso che era il suo solo modo di essere dolce.

Mi ha trasmesso però, nel breve squarcio in cui ho goduto della sua esistenza, la forza dell'amore che perdona, senza dimenticarlo, ogni errore  (quanti me ne ha perdonati con immensa generosità in quei 22 anni che abbiamo vissuto assieme...).

Coraggio, perdono, ricordo.

Tre sentimenti difficili da vivere. Soprattutto non è per me il perdono per i protagonisti ed i gesti conseguenti a quelle idee né, tanto meno, per chi, oggi, non le rinnega apertamente.
Sono sentimenti che accendono la luce necessaria a vincere le tenebre di questo periodo così difficile, non solo per la pandemia, ma, in modo molto più pericoloso, per tutti i fascismi che vogliono vigliaccamente e imperdonabilmente, cancellare questo 25 aprile ed il suo unico significato di festa di liberazione dal fascismo.


P.S.: il 25 aprile del 1945, il mio nonno materno, di cui ho un ricordo loquace e luminoso, andava a recuperare, nascosta da una pietra e protetta in qualche modo, la sua tessera del Partito Comunista. L'aveva occultata perché lui, con 4 figli, non se l'era sentita di lasciarli in preda alla fame ritirandosi a combattere sulle montagne. Per lui, figlio di un macchinista ferroviere anarchico (non so che viso avesse...) una mancanza di coraggio che, forse, non si è mai perdonato. Ma questa è un'altra storia...