Nel giorno
dedicato alla Festa della Mamma, adagiata pigramente sulla distesa ancora verde
di un grano punteggiato di rosso papavero, una luce un po’ indecisa illumina l’arrivo
alla casa dove la mia mamma sfiorisce, giorno dopo giorno, con la dignità delle
persone umili e buone.
Non sono solo oggi,
perché la Vale si è offerta di accompagnarmi.
Mi affianca,
sensibile e comprensiva, in questi miei momenti di dolcezza straziati dalla ferocia
di una malattia che ha ormai piegato in forme quasi indecifrabili le parole della
mia mamma, senza però riuscire a cancellare la sua capacità di trasmettere
l’amore per la vita e per le cose semplici.
Semplici, come
afferrare e trattenere la mano di Valentina, scambiata per la madre…, o
passeggiare giù nel parco con i suoi passi di carta velina, felice di respirare
un’aria diversa sorridendo alle grida dei bambini che le giocano vicino.
O come portare
alla bocca la sua pasta preferita, quella torta italiana che, un morso dice che
è buona e un morso no, ma sempre la cerca.
Accantonata,
mestamente, l’iniziale intenzione di arrivare sin qui in moto - dato che Heidi (la
mia HD 883) non ha voluto giustamente saperne di accendersi dopo mesi di
inattività - ne abbiamo approfittato per spararci a tutto volume in auto il
meglio (e il peggio) dell’iPhone della Vale.
Ed è così che mi
imbatto in un rapper la cui canzone mi incuriosisce prima e mi appassiona poi.
L’arpeggio
iniziale con la chitarra, un po’ lento e trascinato dalle voci in sottofondo,
mi trasporta in una dimensione un po’ malinconica.
Le parole
sincopate, invece, singhiozzano violente sibilando la metafora di una vita
fatta di ipocrisie e ribellioni, di fughe e sottomissioni.
Mi colpiscono con
la forza di un’emozione che arriva dal bagliore delle immagini evocate più
che dal loro puro significato.
La stessa forza
che mi colpiva da ragazzo (e lo fa ancora adesso) quando ascoltavo le canzoni di Guccini ed il fatto
che i contadini fossero curvi, e non Curdi come capivo io, non cambiava lo
scossone nell’ascoltare La Locomotiva (è solo uno dei tanti esempi in cui il
vero significato era nell’immagine e non in ciò che capivo).
La stesso senso
di rottura e di voler cambiare, la stessa voglia di essere fuori dal coro che
ascoltavo, alla stessa età che ha la Vale ora, nelle Canzoni di Notte (la numero 2
in particolare) o nella semiseria Avvelenata.
Allora ho pensato
che, elogio alle canne a parte (che, a sentire lui non l’avrebbe fatto mai,
anche se, ad onor del vero, ha sempre degnamente sostituito l’elogio alla canna
con quello al vino) se il rap fosse stato famoso come Bob Dylan, 40 anni fa, Guccini,
il cantastorie, il giocoliere di parole, il poeta (in fin dei conti) invece che
sugli arpeggi in fingerpicking della Deborah Kooperman, avrebbe potuto scandire
il suo “non morrò pecora nera” sui ritmi sincopati di un rap.
Ed io,
sicuramente, sarei stato lì, allora, come la Vale, ora, ad ascoltarlo.
Forse, difficilmente
avrei potuto condividere uno schiamazzo in auto con i miei genitori (né, tanto
meno, con un pseudo-parente quale posso essere io per lei) e non solo per la
mancanza di un’autoradio. Non ci ho mai provato e purtroppo non posso dire se avrei
scatenato in loro le stesse emozioni che ho provato io oggi.
O se avrebbero pensato, come ho pensato io, che alla loro età si ascoltavano canzoni
con più futuro e meno livore.
Perché il solo sapore
amaro, in questo ardito parallelo musicale, non arriva dal linguaggio rabbioso,
ma dal rifiuto di ogni speranza.
Una mancanza di
sogno che sembra senza scampo, definitiva, come il tappeto di tatuaggi che
(probabilmente) ricopre il corpo di questo rapper.
O forse, come
spero, è solo l’effetto che fa su di me, che ho la mia età, e la Vale ci
legge invece un milione di belle promesse.
Comunque sia, grazie
Vale, per avermi accompagnato in questa luce (che ci ha anche permesso di farci
delle risate alla ricerca di qualche foto profilo…)
Più tardi,
scarico il suo disco da iTunes e lo metto idealmente a fianco dei miei 33 giri
di Guccini.
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