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domenica 15 maggio 2016

I due mostri

Ramin Bahrami e Danilo Rea sono due pianisti. 
Due giganti della musica contemporanea.
Due mostri, insomma.

Classico il primo, jazz il secondo.

Hanno due personalità, due stili, due impostazioni musicali che più diversi non si può.
Stasera però hanno scommesso e vinto, fronteggiandosi su due pianoforti Fazioli al Pavillon di UnCredit.

Il concerto promette una trama di improvvisazioni su musiche di Bach.


Bahrami indossa un frac stropicciato e si arrampica grassoccio e scoordinato sullo sgabello di sinistra. 
Rea siede composto al pianoforte di destra vestito in casual chic. 
Sotto la giacca porta un panciotto che scoprirà solo a concerto avanzato.

Presenta lui la serata.
Sembra egli stesso impacciato dalla stranezza della combinazione. Mette un po' le mani avanti, raccontando di un ritorno ai classici ai quali, come ai jazzisti, piaceva improvvisare. 
Sarà perciò un concerto unico, diverso da tutti gli altri dice quasi a giustificare lo scompiglio che sta per arrivare.

E, in effetti, le prime note, quelle di una toccata o un preludio che non riconosco, lasciano un po' attoniti. I due stili si sovrappongono armonici nei toni, ma completamente sfasati nel marchio. Come se Chopin e Bach si fossero seduti uno di fronte all'altro intestardendosi ad interpretare ognuno col suo timbro la stessa composizione dell'altro.

Una coppia vicino a noi, si arrende subito. 
Si alza e se ne va.

Poi però, quando Bahrami, con l'onda delle sue mani invita la prima fuga e innesta la marcia del contrappunto tutto ritorna in ordine. E' come la carezza di una mamma che ti sistema i capelli arruffati dal vento.  

E da lì in poi diventa tutto più chiaro, l'orecchio si abitua al contrasto.
Io seguo il resto del concerto con un trasporto che, a momenti, mi metto a ballare sulla sedia.

Quasi come fa Bahrami che ha una mimica corporale e facciale trascinante. Un po' ispirato come Gould, un po' "smorfioso" come Jarrett e un po' anche (non me ne voglia, ma la sua corporatura non è da adone) sgraziato come Petrucciani.

Rea conferma il contrasto tra i due e di fronte alla tastiera siede con la severità e la compostezza di un poliziotto che redige il suo verbale per il magistrato di turno. Sembra battere i tasti di una Lettera 22 più che quelli di un pianoforte.

E così, i due si "baciano" in un contrasto che si ripete anche all'uscita di scena che segue ogni brano, quando Bahrami si alza di scatto come colpito da scossa elettrica e Rea lo guarda esitando come a chiedersi: " ma dobbiamo davvero uscire anche 'sta volta?" e portano avanti una performance da brivido e senza sbavature che ci lascia il gusto dolce di una bellissima serata.

Sono tanti i momenti che hanno scosso i sensi della gente in sala. Tutti, come me, curiosi di vedere la combinata di due bravure così diverse.

Uno tra questi certamente è stato quando, tra varie incursioni di melodie assonanti a musiche che di Bach non avevano nulla (tra gli altri, una modulazione dell'Inno alla Gioia di Beethoven, qualcosa che poteva essere Gershwin, altro ancora che ricordava Morricone o un Notturno di Chopin) Bahrami, con il suo tocco da clavicembalista ha avviato l'Aria della Suite n. 3 in Re maggiore (la cosiddetta Aria sulla Quarta Corda, la famosa sigla di Quark...) e Rea ci si è attorcigliato sopra con sincopati da jazzista.

Oppure quando, con lo staccato che ricorda il genio di Gould, Bahrami duetta con gli arpeggi di Rea sulla Aria e la Prima delle Variazioni Goldberg o sul primo preludio e fuga in do maggiore dal Primo libro del Clavicembalo ben temperato (quel preludio da cui Gounod ha preso l'aria della sua celebre Ave Maria).

L'apice del contrasto così armonico e trascinante tra i due, si manifesta però sul primo movimento della Suite n.1 in si bemolle maggiore che appare d'improvviso, come un appunto ordinato tra migliaia di fogli incomprensibili. 
Ad un certo punto, il poliziotto (Rea) stanco di redigere il suo verbale, si alza in piedi, si tuffa dentro il Fazioli scoperchiato e accompagna il virtuosismo di Bahrami con un pizzicato da brivido direttamente sulle corde del pianoforte.

Alla fine dell'esecuzione la gente si spella le mani alla ricerca di un bis che viene addirittura doppiato con simpatia dai due grandi musicisti.

Una serata da ricordare, oltre che per la musica e la straordinaria affabilità e simpatia dei due, anche per le belle (e tristi) parole che Bahrami ha voluto dedicare alla fine del concerto, in un  italiano impeccabile (lui ha vissuto qui in fuga dall'Iran per molti anni) alla necessità che il nostro Paese  così ricco di bellezza e tradizioni si distingua alla ricerca di più cultura, civiltà, dialogo, sfuggendo alla frenesia che ci ha reso tutti più androidi che umani.

















lunedì 9 maggio 2016

Il nipote "avvelenato"


Capita di domenica.

Nel giorno dedicato alla Festa della Mamma, adagiata pigramente sulla distesa ancora verde di un grano punteggiato di rosso papavero, una luce un po’ indecisa illumina l’arrivo alla casa dove la mia mamma sfiorisce, giorno dopo giorno, con la dignità delle persone umili e buone.

Non sono solo oggi, perché la Vale si è offerta di accompagnarmi.



Mi affianca, sensibile e comprensiva, in questi miei momenti di dolcezza straziati dalla ferocia di una malattia che ha ormai piegato in forme quasi indecifrabili le parole della mia mamma, senza però riuscire a cancellare la sua capacità di trasmettere l’amore per la vita e per le cose semplici.

Semplici, come afferrare e trattenere la mano di Valentina, scambiata per la madre…, o passeggiare giù nel parco con i suoi  passi di carta velina, felice di respirare un’aria diversa sorridendo alle grida dei bambini che le giocano vicino.
O come portare alla bocca la sua pasta preferita, quella torta italiana che, un morso dice che è buona e un morso no, ma sempre la cerca.

Accantonata, mestamente, l’iniziale intenzione di arrivare sin qui in moto - dato che Heidi (la mia HD 883) non ha voluto giustamente saperne di accendersi dopo mesi di inattività - ne abbiamo approfittato per spararci a tutto volume in auto il meglio (e il peggio) dell’iPhone della Vale.

Ed è così che mi imbatto in un rapper la cui canzone mi incuriosisce prima e mi appassiona poi.

L’arpeggio iniziale con la chitarra, un po’ lento e trascinato dalle voci in sottofondo, mi trasporta in una dimensione un po’ malinconica.

Le parole sincopate, invece, singhiozzano violente sibilando la metafora di una vita fatta di ipocrisie e ribellioni, di fughe e sottomissioni.

Mi colpiscono con la forza di un’emozione che arriva dal bagliore delle immagini evocate più che dal loro puro significato.

La stessa forza che mi colpiva da ragazzo (e lo fa ancora adesso) quando ascoltavo le canzoni di Guccini ed il fatto che i contadini fossero curvi, e non Curdi come capivo io, non cambiava lo scossone nell’ascoltare La Locomotiva (è solo uno dei tanti esempi in cui il vero significato era nell’immagine e non in ciò che capivo).

La stesso senso di rottura e di voler cambiare, la stessa voglia di essere fuori dal coro che ascoltavo, alla stessa età che ha la Vale ora, nelle Canzoni di Notte (la numero 2 in particolare) o nella semiseria Avvelenata.

Allora ho pensato che, elogio alle canne a parte (che, a sentire lui non l’avrebbe fatto mai, anche se, ad onor del vero, ha sempre degnamente sostituito l’elogio alla canna con quello al vino) se il rap fosse stato famoso come Bob Dylan, 40 anni fa, Guccini, il cantastorie, il giocoliere di parole, il poeta (in fin dei conti) invece che sugli arpeggi in fingerpicking della Deborah Kooperman, avrebbe potuto scandire il suo “non morrò pecora nera” sui ritmi sincopati di un rap.

Ed io, sicuramente, sarei stato lì, allora, come la Vale, ora, ad ascoltarlo.

Forse, difficilmente avrei potuto condividere uno schiamazzo in auto con i miei genitori (né, tanto meno, con un pseudo-parente quale posso essere io per lei) e non solo per la mancanza di un’autoradio. Non ci ho mai provato e purtroppo non posso dire se avrei scatenato in loro le stesse emozioni che ho provato io oggi.
O se avrebbero pensato, come ho pensato io, che alla loro età si ascoltavano canzoni con più futuro e meno livore.
Perché il solo sapore amaro, in questo ardito parallelo musicale, non arriva dal linguaggio rabbioso, ma dal rifiuto di ogni speranza.

Una mancanza di sogno che sembra senza scampo, definitiva, come il tappeto di tatuaggi che (probabilmente) ricopre il corpo di questo rapper.

O forse, come spero,  è solo l’effetto che fa su di me, che ho la mia età, e la Vale ci legge invece un milione di belle promesse.

Comunque sia, grazie Vale, per avermi accompagnato in questa luce (che ci ha anche permesso di farci delle risate alla ricerca di qualche foto profilo…)







E grazie, anche, per avermi presentato Mezzosangue e la sua "Circus".


Più tardi, scarico il suo disco da iTunes e lo metto idealmente a fianco dei miei 33 giri di Guccini.