Translate

lunedì 19 febbraio 2018

Il fiore che non appassisce

Chi è cresciuto nell'abitudine di amare, dedicarsi agli altri e rispettare le regole, non dimentica la bontà.

Non sto parlando di me, ovviamente. 
Su queste buone abitudini, nonostante i giusti insegnamenti, ho infiniti spazi di miglioramento.

Non parlo, tanto meno, di uno dei mille ipocriti paladini di tali valori che, in questo periodo, impestano le nostre giornate con squallide campagne elettorali.  

Parlo di un fiore che appassisce e che, nonostante questo, continua a riempire il mondo con il profumo della sua dolcezza. 

Questa fiore è la mia mamma ed oggi compie 85 anni.
Voglio farle gli auguri in questo modo, ricamando sulle sue abitudini.



La prima è l’abitudine ad amare.
La sua nasce da lontano.

Di sicuro la respira, piccola e bellissima primogenita, dai genitori, Bruno ed Elisa (sempre chiamata nonna Lisetta).
Uniti in modo assoluto e commovente, hanno superato assieme difficoltà piccole e grandi.

La mia mamma è la bambina col fiocco bianco in testa
Dalla distanza Pioltello-Saronno percorsa in bicicletta dal mio nonno per andare a trovare la sua giovane fidanzata, alle incredibili peripezie quando, ormai più che settantenne, andava a trovarla in casa di riposo su uno scalcagnato motorino che lui stesso, vero talento nella arti meccaniche, aveva messo assieme. 
Ogni giorno avviava il catorcio pedalando, come un giovane, tenendo stretto sul manubrio il sacchetto col budino preparato per la nonna, ormai avvolta dalle nebbie della stessa malattia che oggi asfissia la mia mamma.

Per non parlare delle sofferenze della guerra,  quando il nonno era costretto a scappare nei rifugi trasportando la nonna, semi-paralizzata, sul portapacchi di una bicicletta, lasciando i tre figli alle cure dei vicini.
O ai chilometri percorsi a piedi alla fine del lavoro alle Officine Ferroviarie, tutti i giorni, dal capolinea di Grezzana fino a Valciàpelo, un posto di mezza montagna, dove erano sfollati dopo la nascita del quarto figlio.

E’ lì che la mia mamma, bambina ormai cresciuta, si dedica ai fratelli più piccoli, sostituendosi sempre più spesso ad una madre malaticcia e, chissà,  forse travolta dal male oscuro di una  vita violentata da una guerra orribile e così diversa da quella sognata.

E’ lì che impara ad ignorare i morsi della fame rispettando la regola atroce di non oltrepassare la linea di confine tracciata idealmente sul tavolo condiviso con la famiglia della zia ed i cugini più fortunati, sfamati a pane bianco e salame e non a pane nero e patate.

Certo, Anna Frank ne ha viste purtroppo di peggio, ma quando la mamma mi raccontava questa scena, mi pareva di sentire l’odore di quelle ingiustizie e mi chiedevo come avesse potuto sopportare tutto questo senza ribellarsi mai.

In queste prime sofferenza stanno le radici del suo modo quasi austero, auto-limitato, di gioire.

E' in quell'insopportabile squilibrio di emozioni che sta tutta la sua inclinazione, quasi testarda, a sentirsi a posto solo quando ha dato tutto ciò che può dare,  con umiltà, senza sfoggiare e, soprattutto, con un rispetto ed un senso di giustizia più etico che religioso (né, tanto meno,  bacchettone).
Questo dare, senza apparire, è stata la sua vera e grande ribellione.

Potrei riempire pagine, e forse un giorno lo farò, con gli episodi della sua vita condita di amore, dedizione e senso etico.

Dalla devozione unica e totale al mio papà, al dolce rigore con cui metteva in riga le decine di ubriaconi bestemmiatori alla chiusura del bar che aveva gestito con coraggio per qualche anno.
Dall’esperienza pioneristica da genitore  volontario alle prese coi Decreti Delegati, al diploma di terza media recuperato, ormai più che sessantenne, con la passione e determinazione di quell'adolescente che non era stata.

E poi, le esperienze di volontariato che nemmeno conosco quante siano state.
Su questo, lei, con me da sempre niente parole e tutto sguardi,  diceva poco e faceva molto, lasciando il segno. 
Tra i bambini ed i ragazzi dei Grest estivi, ad esempio, era una dolce celebrità e questo era strano per noi figli. 
Bimbi un po' pestiferi, soprattutto mia sorella ed io, l’avevamo conosciuta molto meno sdolcinata e propensa alle coccole. A quel tempo da lei ho preso più sberle - tutte più che meritate - che bacini. 

Ma oggi mi rifaccio.

Quando la vedo è tutto un bacio.
Stringerla senza romperla è un gesto che richiede attenzione,  ma lo faccio continuamente, rimpiazzando ora, con quel bacio, una ad una  tutte le sberle di un tempo.

E’ incredibile poi come, così persa in un mondo che ora le ingarbuglia anche le parole, oltre che i pensieri, una sola cosa riesca ancora a fare breccia nella sua mente appassita.

Le dico: “mama, me déto un basìn?”

Lo dico in dialetto, che non era la nostra lingua, un po' per gioco un po' perché era quella dei suoi rispettati genitori. 

E, non so se, a quel punto, sia per lei più forte il senso dell’amore che le ispira la parola mamma o la voglia di corrispondere alla mia richiesta di darmi quel poco che ha, oppure il rispetto di una sorta di ordine che le arriva da lontano e nella lingua delle regole.

Succede però sempre che si svegli, per un secondo, dal tenero torpore o interrompa il suo sommesso ed educato biascichio di parole ormai senza senso. 
Poi , con un movimento lento e delicato, mi schiocca un bel bacio sulla guancia.

In quel momento chiudo gli occhi e provo la sensazione di essere avvolto dai soffici petali di un fiore.

E penso che, sì, è proprio vero:  la bontà è un fiore che non appassisce mai.