Nell'immaginario comune, "cane e gatto" è sinonimo di discordia, disprezzo reciproco, in un certo senso anche di prevaricazione della forza fisica sull'astuzia così come, per contrappasso, di sfacciata irriverenza dell'anarchico contro il fedele e sottomesso servitore.
Insomma una serie di letture prevalentemente negative.
In genere però, l'espressione si usa per situazioni in cui si sottintende una sorta di familiarità tra le due parti.
Si dice che sono cane e gatto, ad esempio, un fratello ed una sorella (quante volte me lo sono sentito dire da bambino...) oppure un marito ed una moglie, oppure due colleghi che condividono gli spazi lavorativi litigando per ogni cosa, ma, in fondo in fondo si stimano e, in alcuni casi, si vogliono anche bene.
E' difficile sentirlo riferito a persone che sono distanti, non solo nel carattere, ma anche nella posizione sociale, né tanto meno, nelle idee politiche.
In quel caso si usano termini meno bucolici, come nemico, avversario, oppositore.
"Cane e gatto" è quindi, in fin dei conti, un'espressione che richiama sì una tensione, ma in un contesto che possiamo provare a chiamare affettuoso.
Il perché di questo sproloquio iniziale è presto detto.
Non voglio parlare di fratelli e sorelle (e neanche di mariti e mogli).
Non voglio parlare nemmeno di politici (che in quel caso il solo pensiero del nemico è ispiratore di istinti rivoluzionari e violenti).
Voglio parlare di "cane e gatto" per davvero e raccontare di una storia piena di affetto.
Dunque, Asia, il nostro golden retriever (12 anni il 4 ottobre u.s.) è solita passare le sue giornate nel piccolo giardino di casa, lavorando duramente come cane da guardia (!).
La sua interpretazione di difesa del territorio e quindi il suo comportamento "lavorativo" consistono nel lasciar scorrere il tempo comodamente sdraiata in un paio di postazioni.
Fin da cucciola sempre quelle. Tutte e due in posizioni defilate.
La prima, ben nascosta sotto il tavolo nel piccolo porticato davanti alla porta.
La seconda ancora più occultata in un buco nel terreno che lei stessa ha scavato sotto la siepe di pitoforo.
Da entrambe le posizioni si guarda bene dallo scomporsi se passa qualcuno, a meno che non si tratti di chi (fosse anche un ladro) la chiama per farle le coccole.
Diciamo che la sua interpretazione della mission lavorativa (sto scherzando...) è un po', per così dire, alla buona.
In due casi però il suo istinto si rivela per quel che dovrebbe essere: un cane che insegue ed abbaia.
Il primo caso non lo dico, perché non gliel'ho insegnato io e non è così politically correct, anche se farebbe molto piacere ai tanti razzisti che vanno di moda purtroppo in questi tempi.
Il secondo caso invece è più normale, anzi è proprio ... il caso del gatto.
Capita spesso, infatti che, sentendoci arrivare dal fondo del vialetto pedonale che conduce a casa nostra, invece di trovarla bellamente addormentata in una delle due "location" di cui sopra, la sentiamo correre verso il cancello, a volte pure abbaiando, preceduta dalla nuvola di peli di un gatto che, proprio come un cartone animato, scappa terrorizzato inseguito dal suo nemico numero uno.
A dire il vero, più di una volta abbiamo avuto la sensazione che fosse solo una messinscena per darci la soddisfazione e sentirsi rivolgere un apprezzamento per il lavoro ben fatto.
D'altronde, l'addestramento quasi comico del "Ciàpa el gato!" che le urlo ogni tanto per vederla schizzare alla rincorsa di un gatto inesistente, a qualcosa servirà pure!
Resta il fatto però che, fino a pochi giorni fa, quelli che ho detto erano una serie di punti fermi: i nascondigli, sempre quelli, quella cosa che non mi piace dire ed il gatto che esce di corsa dal cancello (quasi sempre un gatto nero con la coda mozzata da una battaglia tra gatti).
Bene, sono ormai due settimane però che due di queste certezze sono venute meno: Asia non si nasconde più nelle sue "tane" ed il gatto, quello nero a coda mozza, non scappa più dal nostro giardino.
Quello che succede invece è che Asia passa le sue giornate accovacciata davanti al cancello, senza più scomporsi nemmeno davanti alle coccole di chi passa.
Abituati a vederla stiracchiarsi uscendo assonnata dai suoi nascondigli o a scodinzolare a chiunque la sfiorasse, trovarla sempre immobile sulla soglia del cancello, un po' vigile, un po' abbattuta in un atteggiamento così insolito e di attesa, ci è sembrato davvero strano.
Quello che è successo (l'abbiamo scoperto parlando con un vicino) è che il gatto nero a coda mozza ha fatto la fine di tutti i ricci che attraversano la strada e lei è li che lo aspetta, inutilmente, probabilmente per giocarci fino al nostro ritorno e poterci proporre la sua recita da "cane e gatto".
Peccato che questo spettacolo sia sospeso, forse per sempre.
Ma il suo dolcissimo atteggiamento di attesa è la prova provata che, almeno per gli animali, il concetto di "cane e gatto" è più intriso di affetto che inimicizia.
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giovedì 25 ottobre 2018
lunedì 19 febbraio 2018
Il fiore che non appassisce
Chi è cresciuto nell'abitudine di amare, dedicarsi agli altri e rispettare le regole, non dimentica la bontà.
Non sto parlando di me, ovviamente.
Su queste buone abitudini, nonostante i giusti insegnamenti, ho infiniti spazi di miglioramento.
Non parlo, tanto meno, di uno dei mille ipocriti paladini di tali valori che, in questo periodo, impestano le nostre giornate con squallide campagne elettorali.
Parlo di un fiore che appassisce e che, nonostante questo, continua a riempire il mondo con il profumo della sua dolcezza.
Questa fiore è la mia mamma ed oggi compie 85 anni.
Voglio farle gli auguri in questo modo, ricamando sulle sue abitudini.
La prima è l’abitudine ad amare.
La sua nasce da lontano.
Di sicuro la respira, piccola e bellissima primogenita, dai genitori, Bruno ed Elisa (sempre chiamata nonna Lisetta).
Uniti in modo assoluto e commovente, hanno superato assieme difficoltà piccole e grandi.
La mia mamma è la bambina col fiocco bianco in testa |
Dalla distanza Pioltello-Saronno percorsa in bicicletta dal mio nonno per andare a trovare la sua giovane fidanzata, alle incredibili peripezie quando, ormai più che settantenne, andava a trovarla in casa di riposo su uno scalcagnato motorino che lui stesso, vero talento nella arti meccaniche, aveva messo assieme.
Ogni giorno avviava il catorcio pedalando, come un giovane, tenendo stretto sul manubrio il sacchetto col budino preparato per la nonna, ormai avvolta dalle nebbie della stessa malattia che oggi asfissia la mia mamma.
Per non parlare delle sofferenze della guerra, quando il nonno era costretto a scappare nei rifugi trasportando la nonna, semi-paralizzata, sul portapacchi di una bicicletta, lasciando i tre figli alle cure dei vicini.
O ai chilometri percorsi a piedi alla fine del lavoro alle Officine Ferroviarie, tutti i giorni, dal capolinea di Grezzana fino a Valciàpelo, un posto di mezza montagna, dove erano sfollati dopo la nascita del quarto figlio.
E’ lì che la mia mamma, bambina ormai cresciuta, si dedica ai fratelli più piccoli, sostituendosi sempre più spesso ad una madre malaticcia e, chissà, forse travolta dal male oscuro di una vita violentata da una guerra orribile e così diversa da quella sognata.
E’ lì che impara ad ignorare i morsi della fame rispettando la regola atroce di non oltrepassare la linea di confine tracciata idealmente sul tavolo condiviso con la famiglia della zia ed i cugini più fortunati, sfamati a pane bianco e salame e non a pane nero e patate.
Certo, Anna Frank ne ha viste purtroppo di peggio, ma quando la mamma mi raccontava questa scena, mi pareva di sentire l’odore di quelle ingiustizie e mi chiedevo come avesse potuto sopportare tutto questo senza ribellarsi mai.
In queste prime sofferenza stanno le radici del suo modo quasi austero, auto-limitato, di gioire.
E' in quell'insopportabile squilibrio di emozioni che sta tutta la sua inclinazione, quasi testarda, a sentirsi a posto solo quando ha dato tutto ciò che può dare, con umiltà, senza sfoggiare e, soprattutto, con un rispetto ed un senso di giustizia più etico che religioso (né, tanto meno, bacchettone).
Questo dare, senza apparire, è stata la sua vera e grande ribellione.
Questo dare, senza apparire, è stata la sua vera e grande ribellione.
Potrei riempire pagine, e forse un giorno lo farò, con gli episodi della sua vita condita di amore, dedizione e senso etico.
Dalla devozione unica e totale al mio papà, al dolce rigore con cui metteva in riga le decine di ubriaconi bestemmiatori alla chiusura del bar che aveva gestito con coraggio per qualche anno.
Dall’esperienza pioneristica da genitore volontario alle prese coi Decreti Delegati, al diploma di terza media recuperato, ormai più che sessantenne, con la passione e determinazione di quell'adolescente che non era stata.
E poi, le esperienze di volontariato che nemmeno conosco quante siano state.
Su questo, lei, con me da sempre niente parole e tutto sguardi, diceva poco e faceva molto, lasciando il segno.
Tra i bambini ed i ragazzi dei Grest estivi, ad esempio, era una dolce celebrità e questo era strano per noi figli.
Bimbi un po' pestiferi, soprattutto mia sorella ed io, l’avevamo conosciuta molto meno sdolcinata e propensa alle coccole. A quel tempo da lei ho preso più sberle - tutte più che meritate - che bacini.
Ma oggi mi rifaccio.
Quando la vedo è tutto un bacio.
Stringerla senza romperla è un gesto che richiede attenzione, ma lo faccio continuamente, rimpiazzando ora, con quel bacio, una ad una tutte le sberle di un tempo.
E’ incredibile poi come, così persa in un mondo che ora le ingarbuglia anche le parole, oltre che i pensieri, una sola cosa riesca ancora a fare breccia nella sua mente appassita.
Le dico: “mama, me déto un basìn?”
Lo dico in dialetto, che non era la nostra lingua, un po' per gioco un po' perché era quella dei suoi rispettati genitori.
E, non so se, a quel punto, sia per lei più forte il senso dell’amore che le ispira la parola mamma o la voglia di corrispondere alla mia richiesta di darmi quel poco che ha, oppure il rispetto di una sorta di ordine che le arriva da lontano e nella lingua delle regole.
Succede però sempre che si svegli, per un secondo, dal tenero torpore o interrompa il suo sommesso ed educato biascichio di parole ormai senza senso.
Poi , con un movimento lento e delicato, mi schiocca un bel bacio sulla guancia.
In quel momento chiudo gli occhi e provo la sensazione di essere avvolto dai soffici petali di un fiore.
E penso che, sì, è proprio vero: la bontà è un fiore che non appassisce mai.
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