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sabato 25 giugno 2016

Il pugno di una donna

24 giugno 2016.


Il risveglio, baciato dal riflesso blu che buca il finestrone del mio hotel affacciato sul mare, viene subito risucchiato nell'incubo Brexit che cancella in un solo colpo il sogno europeo. 

Nella fatica di mettere a fuoco uno sguardo, ancora assonnato, sulla notizia del giornale online, cerco di confonderne le parole e mi dico che non sto leggendo bene. 

Non accade però purtroppo come negli incubi da bagnacauda che, quando ti rendi conto che è tutto troppo brutto, ti autoforzi alla sveglia e, col cuore in gola, ti solleva la presenza del comodino al posto del plotone nazista che ti stava fucilando. 

Oggi il plotone, per fortuna, non è nazista.

Parla a malapena un Inglese da ignorante, ma è un po' come mi avesse fucilato davvero. 

Di certo l'idea di un'Europa, difficile, sofferta, ma aperta ed un po' cosmopolita come Londra, si accascia sotto i colpi populisti ed egoisti del 52% degli Inglesi. 

Colpisce che siano i rincoglioniti dai tabloid e dalle TV commerciali, over 65 o giù di lì, ad aver deciso per quei giovani che amano l'Europa viaggiando e studiando in giro e che si troveranno a vivere in un'isola più piccola ed egoista almeno quattro volte più a lungo di questi vecchi ignoranti ed imbecilli che spero paghino caro e da soli un conto molto salato (questo non è un articolo di giornale e posso scrivere quello che voglio compresa una versione rivista della bestemmia di mussoliniana memoria e rivolta alla "perfida Albione" : "dio stramaledica (il 52% de)gli Inglesi") 

Colpisce anche che, proprio chi ha ancora una memoria della fatica fatta per aprire le frontiere ed avere dato a noi ed ai nostri figli la possibilità di vivere in una piccola porzione di mondo in pace, nella quale muoversi e trasferirsi era diventato più facile, abbia deciso di chiudersi di nuovo in casa, ammaliato dal qualunquismo e dalla assenza di idee di chi non capisce che il mondo va avanti e finge che basta fermarsi e barricarsi per cambiarlo. 

Sarà il fatto che, nel lontano 1979, quando ancora l'Europa era ad una cifra  (!), spendevo una vacanza assieme a ragazzi spagnoli, francesi, tedeschi (gli inglesi già allora non erano venuti) a parlare di Europa non solo come MEC (mercato comune europeo) o che nel vicino 2015 Enrico si è trasferito a Londra a lavorare dopo aver fatto l'Erasmus e poi uno stage in quella città considerata anche un po' nostra. 

Sarà che in questo lungo lasso di tempo, tra mille difficoltà e tentennamenti, impatti economici e benefici culturali, aneliti di pace e complessi di inferiorità, l'idea di tornare indietro sembrava poter essere legata solo ad eventi traumatici come il fallimento di uno stato (vedi Grexit). 

Sarà che ancora non si riesce a fare nostro fino in fondo il vero problema che forse è alla base di questa reazione che è  lo squilibrio con altri mondi flagellati da povertà di radice europea e guerre religiose (non è un articolo e potrei tirare la bestemmia giusta per ogni dio che porta i fedeli alla guerra, ma questa volta non lo faccio). 

Sarà per mille altre ragioni che non riesco ora ad esprimere, ma questo stramaledetto Brexit, avvolto dal profumo del dolce mare di Bisceglie, mi ha colpito in faccia come il pugno di una donna. 

È veramente uno shock.

Le evoluzioni saranno imprevedibili come (incredibile) imprevedibile è l'impreparazione che traspare dalle reazioni, ancora poco lucide, che trapelano dai giornali (alcuni anche impreparati a titolare...)



Nella mia tristezza, spero si vada velocemente verso un divorzio in cui si regolino equamente e senza sconti gli aspetti economici e si mantenga, come purtroppo non spesso accade nella realtà, un rapporto di amicizia con la porta sempre aperta, soprattutto per quei figli che hai abituato ed illuso che la casa fosse una sola. 


P. S.: tutto questo accade mentre sono "giudice" ad un hackathon ovvero una maratona di presentazioni di start-up di giovani (e meno) che hanno idee più o, molto spesso, meno digitali.
L'entusiasmo e la voglia di mettersi in gioco di questa gente, molto più della brillantezza delle loro idee, attenua solo un po' il sapore amaro da cambiamento insensato che attanaglia anche la platea di "papaveri" che presenzia a questo Digithon (www.digithon.it)



domenica 12 giugno 2016

I (quasi) cent'anni di Francesco Guccini

Un enorme nuvolone nero, carico di pioggia copre, a tratti, la Luna e Giove che si baciano furtivi sopra i tetti della parte più bella di Verona. 






Per tutta la serata, il nero sipario davanti al romantico tramonto dei due astri incombe minaccioso sull'Incontro con Francesco Guccini, rendendo ancora più incerto e nostalgico il sapore di una serata così diversa da quella di un suo concerto. 

Francesco arriva puntuale come le bottiglie di vino poste sul tavolino da talk show al quale si siede accompagnato dal giornalista (non certo ignorante, almeno di musica) Enrico de Angelis. 



Appesantito e lento nei movimenti, sembra una ripresa, deformata dal rallenty, delle goffe movenze da cantastorie che hanno accompagnato i suoi concerti da un certo punto in poi. 

Una volta fatta l'esperienza ( mai ripetuta e quindi probabilmente non memorabile) all'Opera di Parigi, nel lontano 1987, il suo modo di stare sul palco cambiò infatti radicalmente e a me fece davvero strano la prima volta che lo vidi, forse era l'89,  in piedi, volteggiare a mano libera, invece  che seduto vicino a Flaco (o a Jimmy Villotti prima). 

In tutti i suoi concerti visti fino ad allora, da solo o accompagnato, stava seduto imperterrito, imbracciando la chitarra. Il più ampio dei suoi movimenti era, troppo spesso, quello dell'aggancio del fiasco vicino alla sedia.

A partire da quello del 31 marzo 1977 al Teatro Laboratorio in cui, inconsapevolmente, mi trovai in mezzo al gruppo di autonomi che lo costrinsero ad interrompere la performance alla canzone  "E un altro giorno è andato" dal momento che i suoi inviti ("i cinesi stiano zitti!") caddero inascoltati, venendo dilaniati dalle urla degli incazzati abusivi. 

Oppure in quel concerto a Sant'Ambrogio di Valpolicella, in un capannone freddo e senza acustica, dove un muro, si, proprio un muro alto tre metri, divideva il pubblico in due. 
Mi ricordo che Francesco ci ricamò sopra una storiella da morir dal ridere, incitando una volta una parte, una volta l'altra. 

O a Isola della Scala, nel 1980, già accompagnato dalla sua band storica, illuminata da un faro sul retro-palco puntato sulle orecchie di Ellade Bandini (che fu preso in giro tutta la sera) restó seduto, a distanza di sicurezza dal bottiglione di vino, per tutto il concerto. 

Anche stasera è seduto, goffo ed incredibilmente appesantito.

Infagottato in un impresentabile cardigan color caffelatte, si affatica, tossicchiando, su ricordi e racconti, solleticato dalle domande di de Angelis (non molto profonde e, almeno per me, un po' troppo da presentazione di un nuovo libro). 




Racconta della sua caduta ad Auschwitz, durante il suo recente pellegrinaggio e del ribrezzo che prova a vedere la mancanza di memoria che anima la rinascita di gruppi neonazisti.
Così come vomita, senza ritegno, la sua condanna per gli imbecilli de "Il Giornale" che regalano, con la scusa di una lettura critica, il Mein Kampf di non ricordo più che autore. 
Ci scherza sopra, dicendo che, probabilmente, gli imbecillì nonché ignoranti, avranno pensato che si trattasse di un trattato di agricoltura sui Miei Campi...


Senza scossoni e con la solita ironia canzonatoria e spesso rivolta verso se stesso, fa la sua parte di arguto e distaccato osservatore che gioca con le parole per trasmettere emozioni. 



Parla del libro e dei sui occhi da bambino che accompagnano il matrimonio del paese, o di quelli, più furbetti che cercavano, più avanti, l'intorto tra le note strimpellate nelle balere giovanili. 

Descrive gli anziani del suo paese assorti nel rito, esclusivamente maschile, delle chiacchiere ai funerali, seduti sui gradini, contrapposte alle devote preghiere delle donne che, sole , entrano in chiesa. 
Ci accompagna nel mulino dei nonni e ci presenta le macchiette della sua Pavana  che, dice, non fa neanche comune mentre meriterebbe di essere capoluogo di provincia (o di regione che le province non ci sono più...). 

Spiega il significato di alcune incomprensibili parole  presenti nel suo libro, rovistando le province di Mantova, Ferrara, Pistoia alla ricerca del loro etimo. 

Confida il suo amore per i gatti, prendendo in qualche modo, con rispettoso tatto, le distanze da chi preferisce i cani, ottenendo l'effetto di spaccare in due il mormorio delle duemila e più persone arrampicate sulla collina del Teatro Romano.

E, a proposito del pubblico (che lo ha accolto intonando un affettuoso "Tanti auguri a te" in anticipo di tre giorni) era quello che mi aspettavo: un mix di giovani (in netta minoranza, ma tutti preparati...) e meno giovani, rassegnatamente composti e di certo un po' tristi, di fronte alla certezza che non avrebbero ascoltato nessuna canzone uscire dalla voce del Maestrone. 

Un pubblico che non ha trasmesso agitazioni da concerto. Nessuna maglietta con il Che, nessuno striscione, nessun richiesta urlata per l'Avvelenata. 
Un pubblico di persone innamorate, insomma, ma abituate ormai all'assenza della sua voce dal vivo. 

L'intervista finisce infatti senza nemmeno l'accento di una sua nota, intervallata soltanto da qualche filmato d'epoca già visto mille volte e poche foto invece, quelle, meno famose. 

La mancanza della sua voce si è fatta sentire ancor più forte nella seconda parte della serata quando i Musici si sono avvicinati agli strumenti. 

Juan Carlos "Flaco" Biondini voce e chitarre, Vince Tempera tastiere, Antonio  Marangolo sax, con lui da (quasi) sempre,   Pierluigi Mingotti al basso (con lui dal 2001) e uno straordinario e gigantesco batterista, Ivan Zanotti (classe 1980...) che con lui non ha mai suonato. 




Musicisti strepitosi che hanno inanellato, dedicandole a Francesco, lentamente accomodatosi in prima fila, una bella serie di canzoni storiche: Incontro, Autogrill, La Locomotiva, Asia, il Vecchio e il Bambino, Cirano, Eskimo. 

Con il blues rivisto di Statale 17 hanno portato a termine  l'inchino rispettoso verso l'unicità delle interpretazioni originali evitando ammirevolmente di scimmiottare la scaletta originale. 

Ecco, se gli arrangiamenti e gli assoli dei musicisti hanno lasciato senza fiato un pubblico che non si aspettava tali sonorità jazz o, più spesso, duramente rockettare, la cadenza Argentina di Flaco, senza doppie, un po' sfasata e, soprattutto, senza la r arrotolata dal Limentra, hanno lasciato più d'uno un po' così, non dico deluso, quello no, ma, come ho detto prima, rassegnato alla mancanza del protagonista principale. 

C'è da dire che, se c'è uno al mondo a cui il pubblico di Francesco può perdonare sbavature nell'interpretare le sue canzoni, questi certamente è Flaco. 

Ed infatti, tutti i suoi tributi sono accompagnati da un sommesso coro in sottofondo che non è esploso come sarebbe esploso ad un vero concerto, ma forse solo per rispetto verso il Guccini spettatore e la sua stanchezza. 

Stanchezza che mi è parsa un po' eccessiva in confronto all'età, soprattutto quando ha detto, sia pur giustificandosi con la scaramanzia, che 76 sono troppi e sarebbe ora di chiuderla qui...




La serata è finita così, Francesco tornato sul palco, solo a salutare, ed il pubblico (non ammaestrato) di giovani e meno giovani che, ordinati e senza bandiere, hanno abbandonato un Teatro innondato di musica, ma, soprattutto, di felice nostalgia, completamente asciutti, nonostante il nuvolone ancora lì sopra la testa ed una Luna infrattata con Giove ormai sopra l'Oceano.